Attualità
150 mila italiani sfruttati dai caporali
I Rapporti ''Agromafie e caporalato'' dell’Osservatorio ''Placido Rizzotto'' di Flai-Cgil, mettono in luce un fenomeno in crescita, aggravato dai decessi registrati in Puglia. Il sociologo Francesco Carchedi: ''Gli italiani hanno più possibilità degli stranieri per difendersi e far valere i propri diritti, ma non basta''. Michele Zannini (Acli Terra): ''Attaccare i patrimoni di chi utilizza il lavoro nero''.
Italiani e stranieri accomunati dallo sfruttamento lavorativo in agricoltura. E non solo al Sud: gravi fenomeni si registrano anche in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Lazio. A tracciare una mappa sono i Rapporti “Agromafie e caporalato” dell’Osservatorio “Placido Rizzotto” di Flai-Cgil, che in vista della terza edizione – l’ultima risale al 2014 – denuncia “un inasprimento della situazione lavorativa per gli italiani in agricoltura”, con una stima di 150mila connazionali sfruttati. Frattanto, dopo le notizie dei braccianti morti, nella torrida estate 2015, nei campi della Puglia, dal governo si attende a breve un pacchetto di norme che preveda, tra l’altro, la confisca dei beni per le aziende che ricorrono al lavoro nero. Italiani sempre più sfruttati. Secondo l’ultimo Rapporto “non sono meno di 400mila (di cui più dell’80% stranieri) i potenziali lavoratori in agricoltura che rischiano di confrontarsi ogni giorno con il caporalato, per loro unico strumento per entrare nel mercato del lavoro (seppur nero). Sicuramente circa 100mila devono associare a una grave condizione di sfruttamento lavorativo anche una condizione di disagio abitativo e ambientale”. Dati che, tra il 2014 e il 2015, hanno subito un ulteriore peggioramento. “Dai 70-80 mila italiani sfruttati si è passati a 150mila”, denuncia Francesco Carchedi, sociologo, docente all’Università “La Sapienza” di Roma e coordinatore scientifico dell’Osservatorio. Colpa anche della crisi. “Questa gente è soggetta a pressioni perché ha un bisogno drammatico di lavoro e l’agricoltura è uno dei comparti in cui c’è ancora occupazione”, annota Michele Zannini, presidente di Acli Terra. È un “settore rifugio” per sfuggire alla disoccupazione, ma a quale prezzo. “Certo, gli italiani hanno più possibilità degli stranieri per difendersi e far valere i propri diritti, ma questo non basta – continua Carchedi – di fronte a un’offerta di lavoro che è solo di un tipo: o ci stai, o niente lavoro”. In tutta Europa. Peraltro, non solo non è un fenomeno confinato al Sud Italia, ma si estende a tutta Europa. “In Germania avviene lo stesso per la raccolta degli asparagi, come pure in Provenza, Bretagna, Cornovaglia…”, elenca Carchedi parlando di un “abbassamento generalizzato dei diritti dei lavoratori nel settore agricolo”, laddove lo sfruttamento “rappresenta un sistema, non si tratta solo di qualche mela marcia”. Anzi, laddove le imprese più grandi sono le prime a non farsi scrupoli, si trascinano dietro le altre in un’organizzazione schiavistica del lavoro. Tornando all’Italia, il “sommerso” – secondo i dati Flai-Cgil – è pari al 43% e “ha un costo per le casse dello Stato in termini di evasione contributiva non inferiore a 600 milioni di euro l’anno, in un contesto dove l’economia sommersa nel settore agricolo sottrae un flusso di denaro all’economia reale superiore a 9 miliardi di euro ogni anno”. Più di 80 gli “epicentri”, ovvero i distretti agricoli in cui si pratica il caporalato: in 33 il sindacato ha riscontrato condizioni di lavoro indecenti e in altri 22 un grave sfruttamento lavorativo. Al Nord vi rientrano il Cuneese, l’Alessandrino e l’Astigiano in Piemonte; la zona della Franciacorta e il Basso bresciano, Lecco, Mantova, Pavia, Monza-Brianza e Milano in Lombardia; Bolzano; Rimini, Cesenatico, il Ferrarese e Ravenna in Emilia Romagna. Poi, al Centro, le Marche (Ascoli, Fermo e Macerata), la Toscana (Val di Cornia nel livornese, Val Tiberina e Val di Chiana nell’Aretino, Maremma e Amiata nel Grossetano), il Lazio (Latina, Aprilia, Cisterna, Fondi, Gaeta, Sabaudia, Terracina). Un elenco che serve per mostrare la pervasività del fenomeno, che va ben al di là di un Sud (con “epicentri” in Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia) spesso additato come unico colpevole. Punire con la confisca. “Sindacati e associazioni possono ben poco se non intervengono le istituzioni con leggi più pesanti e l’ispettorato del lavoro con controlli severi”, conclude Carchedi. Il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina ha annunciato “un piano d’azione organico e stabile” e, d’accordo con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, si è impegnato a predisporre “un atto legislativo importante” per confiscare i beni delle imprese che si macchiano del reato di caporalato. Mentre, dal 1° settembre, è attiva la “Rete del lavoro agricolo di qualità”, organismo “nato per rafforzare le iniziative di controllo dei fenomeni d’irregolarità e delle criticità che caratterizzano le condizioni di lavoro nel settore agricolo”. Vi possono aderire le aziende agricole che non hanno precedenti per violazioni della normativa in materia di lavoro e fiscale e che sono in regola con i versamenti contributivi. “Apprezzabile”, ma “non basta se non si mette in campo un complesso più organico d’iniziative che incidano sulla qualità e l’efficacia di controlli, ispezioni e sanzioni”, rimarca il presidente nazionale di Acli Terra, Zannini, chiedendo di “attaccare i patrimoni di chi utilizza il lavoro nero” e, al tempo stesso, istituire un sistema di premi per le imprese virtuose e penalizzazione per le altre”. Per combattere senza quartiere, e con le armi adatte, caporalato e lavoro nero.