Inaugurazione Anno Accademico: la prolusione integrale di mons. Checchinato

Discernimento e cammino sinodale: la testimonianza degli Atti degli Apostoli. 

 

Saluto tutti voi presenti a questo momento celebrativo di apertura dell’Anno Accademico 2023/2024, in particolare la comunità accademica dei due Istituti qui riunita. Insieme alle Direttrici, rivolgo un pensiero augurale alle studentesse, agli studenti e ai docenti.

UN CAMBIAMENTO D’EPOCA.

Ringrazio per avermi dato l’occasione di tenere la prolusione in questo tempo di grande sfida per la Chiesa, impegnata nel Sinodo per un discernimento comunitario sulle priorità da assumere come credenti e sul modo di interrogarci, di fare progetti, di essere sale e lievito nell’oggi della storia. È sotto gli occhi di tutti la difficoltà crescente con cui tanti cristiani affrontano l’attuale sfida nei confronti della fede, e dello stesso essere cristiani. Scrive acutamente B. Salvarani in un suo recente testo: “Al cuore delle comunità cristiane affiora un vistoso disagio, che si manifesta in modi diversi. In molti parlano ormai apertamente di fuoriuscita del cristianesimo dalla cultura occidentale, e di una sua imminente implosione. Cosa resterà, della Chiesa di oggi, nei prossimi decenni? (…) Dalla scomparsa della figura del praticante a vantaggio di quelle del nomade dello spirito e del pellegrino e dalla spinosa ma ineludibile questione del pluralismo religioso alla nuova geografia degli odierni cristianesimi; dal ruolo della Bibbia, grande codice dell’Occidente e non solo, alla figura di Gesù, riscoperta di recente nella sua ebraicità. (…) Quel che è certo è che se la visione cristiana vuole risultare ancora credibile, va ripensata da capo.”[1] Aver imparato a memoria, da piccoli, le rassicuranti formule del catechismo di San Pio X, era considerata una risorsa incomparabile, una sorta di prontuario che dispensava risposte ad ogni domanda. Utile per la conoscenza della dottrina cattolica e per la confessione personale, e nei rari casi in cui veniva utilizzato, anche per scelte comunitarie. C’erano comunque delle variabili nell’utilizzo: rispetto alla domanda di quali fossero i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, la predicazione si attestava soprattutto (e talora solamente) sui primi due: omicidio volontario e peccato impuro contro natura. Omelie tuonanti contro la mancata osservanza degli altri due, oppressione dei poveri e defraudare gli operai della giusta mercede, era merce rarissima, o forse lo è ancora. E in ogni caso, nonostante le rispostine pronte il problema si poneva ugualmente perché il catechismo sembrava riferirsi ad un mondo rigidamente stabilizzato da una cornice che era sempre la stessa. Poteva cambiare qualcosa, ma in qualche maniera veniva integrata dall’insieme. E se c’era qualcosa di differente in genere veniva espulsa dall’insieme stesso. E per qualcuno che rivendicava la possibilità di una eventuale integrazione nell’insieme di ciò che era difforme l’unica soluzione proposta era la “normalizzazione” all’interno di “patterns” predefiniti ed accettati dalla chiesa. Certamente la sapienza della teologia morale veniva incontro a quanti si chiedevano se e come situazioni contingenti potessero variare ad esempio la liceità o la peccaminosità di un atto: le fonti della moralità recitavano l’importanza della valutazione sul finis operis, sul finis operantis e sulle circumstantiae, ma il peso dell’intrinsece malum legato ad alcune azioni particolari rendevano di fatto poco utilizzabili le risposte stesse del catechismo. E comunque era più rassicurante sapere sempre se si era nella parte dei buoni o dei cattivi: forse anche per questo si trovavano nelle nostre chiese vicino ai confessionali dei tabelloni che ricordavano i punti su cui bisognava interrogarsi per individuare colpe e valutarne la gravità: nulla di cui stupirsi se la confessione era semplicemente un elenco dei peccati con la specifica delle volte in cui si era caduti, secondo il dettame del Lateranense IV che invitava a dire “saltem semel in anno” “omnia et singula peccata mortalia” (a cui bravi canonisti/moralisti aggiungevano “secondo la specie morale e teologica”). Le eventuali “attenuanti” o i percorsi possibili di redenzione pronti a stimolare il bene avevano, nell’insieme, meno rilievo. La dimensione della coscienza personale era presente ma tendenzialmente sullo sfondo, e considerata come strumentale rispetto al giudizio da compiere sugli atti sottoponibili alla confessione. Si capisce altresì, in questo contesto, che la dimensione del peccato è riferita sostanzialmente al peccato personale, un peccato che non ha sostanziali riferimenti alla comunità a cui appartengo; è ovvio che la dimensione sociale del peccato è meno percepita rispetto alle dimensioni legate alla persona e ai suoi atti. Certamente la percezione di un “peccato strutturale”, come ci insegnava Papa Giovanni Paolo II rimane ancora poco approfondita e condivisa: “Se la situazione di oggi è da attribuire a difficoltà di diversa indole, non è fuori luogo parlare di “strutture di peccato”, le quali – come ho affermato nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia – si radicano nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere (Reconciliatio et Paenitentia RP 16). E così esse si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini.”[2] Certamente siamo tutti cresciuti di più rispetto alla consapevolezza della ricaduta sulle nostre azioni del tempo e dello spazio che abitiamo così come percepiamo in maniera più adeguata il ruolo della coscienza personale. Per contro questo non ci impedisce di vedere come problematica una rarefazione di punti di riferimento, come giustamente sottolineava Z. Bauman nel suo arcinoto scritto sulla società liquida.  Ma cosa si intende esattamente per società liquida? “Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo – così Umberto Eco spiegava Bauman – ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo”. La modernità liquida, per dirla con le parole del sociologo polacco, è “la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza”[3].

Certamente questo cambiamento ha operato la sua influenza anche nella nostra esperienza ecclesiale e così la rassicurante presenza di un catechismo che possa servirci da prontuario utile ad ogni occasione si sta progressivamente arricchendo di uno stile di approfondimento creativo che mette al primo posto la coscienza personale e la preziosità della esperienza altrui. Ciononostante, uno degli elementi a cui fa riferimento Bauman è la fatica a cogliersi come compagni di strada e la tentazione a cui sottostiamo è di considerare l’altro l’antagonista da cui difendersi. E questa lettura può non essere l’unica a giustificare la necessità di una consapevolezza nuova del tempo che stiamo vivendo, ma certamente numerosissimi sono gli elementi che ci indicano che “for the times they are a-changin’”[4] come cantava Bob Dylan nel 1964, che il quadro di riferimento statico e rigido a cui tanti erano abituati e da cui in qualche maniera rassicurati ha lasciato il posto ad una nuova situazione. Un elemento che giustifica questa nuova situazione -ce lo diceva Bauman- è la fatica a cogliere il dato dell’alterità e allora, prima di addentrarmi a considerare la dimensione del discernimento nella Chiesa in maniera specifica in alcuni testi degli Atti degli Apostoli, vorrei provare a dare una occhiata al dato biblico sulla dimensione uni/duale dell’essere umano; abbiamo bisogno di ritrovare la dimensione dell’alterità come dono per la nostra identità e la nostra crescita e la dimensione del “noi” come punto di riferimento che superi la tentazione dell’individualismo e dell’autoreferenzialità.

 

UN PUNTO DI PARTENZA IRRINUNCIABILE:

LA DIMENSIONE DELLA ALTERITÀ

La tradizione ebraico cristiana ci fornisce preziosi supporti razionali al tema della alterità: il contenuto sapienziale che ci viene offerto dalle prime pagine della Genesi ci invita a cogliere l’umanità nella sua dimensione “uniduale”. È importante affermare qui che l’”in principio” della Scrittura non ci fornisce un progetto realizzato da Dio e che si situa “cronologicamente parlando” alle nostre spalle, ma è il progetto verso il quale siamo chiamati con la nostra umanità, è l’ideale verso il quale tendere. L’ideale prospettato dalla Scrittura lega l’esistenza umana alla potenza creatrice di Dio. Questa potenza creatrice ricorda all’uomo che la sua storia è inscritta in una storia che lo precede: il taglio ombelicale ci ricorda infatti che il mondo esiste prima di noi. Questa Parola che chiama all’esistenza l’uomo è una Parola che lo limita: nel linguaggio sapienziale tipico di queste prime pagine della scrittura, si afferma che perché possa esistere l’essere, Dio procede a separazioni successive: “e Dio separò la luce dalle tenebre… e Dio separò le acque che sono sotto il firmamento da quelle che sono sopra il firmamento” (Gen 1, pass.). Questa separazione differenziazione culmina nella separazione dell’umano in maschio e femmina a immagine di Dio, un limite che rimane inscritto nel cuore dell’umano, come promessa di una relazione creatrice nell’amore. L’uomo, a sua volta, non può essere creatore se non si accetta limitato, bisognoso dell’altro. Questo significa ancora che non esiste la mia vita senza la vita dell’altro: Significa il rifiuto della opposizione fra individuo e collettività: in questo senso l’espressione “non è bene che l’uomo sia solo” non indica solo la realtà che concerne il rapporto maschio femmina. Significa il riconoscimento degli altri in tutte le dimensioni della loro esistenza concreta perché non solo l’altro non può essere strumentalizzato, ma la verità è che solo l’altro può garantire la mia esistenza. Tutto questo appare una rivoluzione che interpella il singolo e fa dell’essere “per l’altro” la potenza di trasformazione delle società degli uomini. In questa prospettiva vivere per l’altro presupporrà il dono incondizionato di sé, ma anche un’esistenza che varrà la pena di essere vissuta più d’ogni altra poiché recepita come dono. “In effetti, solo quando so riconoscere il suo essere altro da me, l’altro è capace di offrirmi uno specchio attraverso il quale posso riconoscere la mia identità. Senza l’altro io non potrei che naufragare in una immagine fantasmatica di me stesso”.[5] Secondo la Scrittura il non accogliere la differenza, l’alterità, rappresenta un regresso verso quel caos primordiale che l’atto creatore di Dio aveva respinto. L’impurità, secondo la Scrittura (come recitano i grandi libri della Torah) è la mescolanza di quello che deve restare separato, è il rifiuto delle differenze e il trionfo dell’indifferenziato: è cioè il disordine, il caos, che si oppone all’ordine della creazione. Visto da un punto di vista differente questo discorso, che rappresenta un ideale, ci ricorda che in verità abbiamo fatica ad accettare il nostro essere “limitati”: ed è proprio l’esperienza della percezione del limite che genera conflitti. Scrive, a proposito del sorgere dei conflitti, il gesuita francese Michel de Certeau: “Il bambino che incontra delle resistenze che gli delimitano uno spazio. L’adolescente che si scontra con una generazione già installata e che pretende di organizzare l’avvenire nelle strutture del passato. Primi scontri che precedono tutti quelli che saranno provocati dalla professione, dal matrimonio, dalle relazioni sociali. (…) Esistere significa sì ricevere dagli altri l’esistenza, ma significa anche, uscendo dall’indifferenziazione, provocarne le reazioni; vuol dire essere accettati e aderire a una società, ma anche prendere posizione nei suoi confronti e incontrare dinanzi a sé, come un volto illeggibile e ostile la presenza di altre libertà. Chi sfuggisse questo faccia a faccia, non per questo eviterebbe la paura, inseparabile da ogni scontro, ma rinuncerebbe ad essere, affermando al vento un diritto che sarebbe incapace di far riconoscere. Non si vive senza gli altri. Questo significa che non si vive senza lottare con loro.” [6] La conflittualità ci appartiene come elemento attraverso il quale possiamo crescere, ma che abbiamo bisogno di gestire con responsabilità. E questo non riguarda solo i rapporti interpersonali e i processi di crescita ad esse connessi, ma anche le istituzioni civili ed ecclesiali. Scriveva nel suo testo più famoso, “Il principio responsabilità”, il filosofo  Hans Jonas: “Ogni essere vivente è fine a se stesso e non ha bisogno di una giustificazione ulteriore. Sotto questo aspetto l’uomo non è in nulla superiore agli altri esseri viventi, eccetto che per poter essere soltanto lui responsabile anche per loro, ossia per la salvaguardia del loro essere fine a se stessi. Ma nella compartecipazione al destino umano i fini dei suoi simili, sia che egli li condivida o che si limiti a riconoscerli negli altri, e il fine in sé della loro stessa esistenza, possono in maniera unica confluire nel suo proprio fine: l’archetipo di ogni responsabilità e quella dell’uomo per l’uomo.”[7] Questa responsabilità si potrebbe coniugare con una attenzione a far crescere in noi, nelle strutture che animiamo con la nostra professionalità o con la nostra passione, con il nostro essere cittadini della Gerusalemme della terra e della Gerusalemme del cielo, la passione per l’altro considerato non come minaccia, ma come risorsa, l’altro come paradiso e non come inferno, l’altro come compagno di strada con cui guardare verso la stessa meta e non come il potenziale nemico da cui difendersi. Occorre, in questo senso, un esodo verso l’altro: essere-per-l’altro è il perno dell’antropologia. E la comunità credente prima di tentare improbabili sintesi è chiamata a tornare al racconto biblico a questa sua primaria vocazione con inquietudine per ridisegnare il suo cammino e ripensarsi. Scriveva il filosofo Salvatore Natoli: “La dimensione etica, nella nostra pratica quotidiana, è avere dentro di sé l’istanza dell’altro, non sentirsi mai unici, separati, assoluti, perché questo condurrebbe a un delirio di onnipotenza. Se io non interiorizzo l’altro in me, se non mi sento parte, inevitabilmente mi sento tutto, e quindi, anche senza volerlo, sono distruttivo, perché credo di avere il diritto su tutto. La relazione di alterità è la dimensione fondamentale dell’etica. Senza l’alterità non c’è l’etica. Solo attraverso la dimensione di alterità gli uomini possono incontrarsi e prendersi le misure. Si sviluppa il giudizio etico: in questo momento quanto ti do, quanto ti tolgo, quanto devo, come ti devo amare? E allora la domanda etica diventa: qual è la giusta relazione con l’altro?” [8]

Rimane emblematica a questo riguardo, la presa di coscienza che Papa Francesco fece fare a tutto il mondo la sera del 27 marzo 2020, data che -ne sono certo- ognuno di voi ricorda benissimo, quando affermò: “Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.”[9] Non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme. Assumiamo questa affermazione come architrave della nostra esperienza umana ed ecclesiale e riconosciamo nel Sinodo una esperienza eccezionale di ascolto reciproco che possa farsi carico delle “gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono” (GS 1). Proviamo anche ad avvicinarci ad una esperienza sinodale permanente quale è stata quella della comunità delle origini, così come ci racconta Luca nel suo secondo libro.

Il discernimento negli Atti degli Apostoli

“Leggere scritture sacre è obbedire ad una precedenza dell’ascolto. Inauguro i miei risvegli con un pugno di versi, così che il giro del giorno piglia un filo di inizio. Poi posso pure sbandare per il resto delle ore dietro alle minuzie del da farsi. Intanto ho trattenuto per me una caparra di parole dure, un nocciolo d’oliva da rigirare in bocca.”[10]

Il grande conoscitore della Scrittura, Erri de Luca condivide la sua esperienza di frequentazione della Bibbia, con un livello personale di ascolto. Anche l’esperienza dei primi cristiani ci ricorda di una frequentazione della Scrittura che è regolare o meglio assidua ma che soprattutto è fatta insieme. Nel primo sommario che ci offrono gli Atti degli Apostoli leggiamo: 2,42” Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere”. C’è un ritorno costante alle indicazioni che Gesù offre prima della sua Ascensione: 1,6 “Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». 7Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, 8ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra».

Il testo lucano ci riferisce del desiderio dei discepoli di conoscere per poter “comprendere” nel senso proprio di mettere insieme, dare senso compiuto, contenere all’interno di una cornice. L’esperienza ci è già nota da altri testi evangelici in cui gli apostoli fanno domande a cui Gesù risponde indicando mete ulteriori. C’è forse una tentazione di pragmatismo legata a questa domanda: sapere per poter fare qualcosa. Ma Gesù dice che non spetta loro conoscere Kronos e Kairos e assicura: “riceverete la dynamis dello Spirito Santo e mi sarete testimoni”. Alla tentazione di poter conoscere e controllare tutto, di avere una risposta precisa ad ogni domanda si contrappone questa affermazione implicita di Gesù: al discepolo non spetta conoscere il piano di Dio. Al discepolo è data la dynamis dello Spirito Santo; dynamis è forza, ma è anche processo, cammino…e nel testo sembra essere presente una affermazione sottintesa che parla di dynamis come movimento, e che si rivela nella “martyria” del discepolo (proprio del vangelo di Luca). Certamente questa dynamis è data non per conoscere in anticipo la storia, ma per poter essere nella storia testimoni, come Abramo che ricevette l’invito a partire: “Per fede, Abramo ubbidì quando fu chiamato da Dio: e partì senza sapere dove andava, verso un paese che Dio gli avrebbe dato.” (Eb 11,8) Interessanti le parole che il Cardinal Ambongo, Arcivescovo di Kinshasa, ha detto qualche giorno fa: “Da quando abbiamo iniziato siamo entrati con la preghiera e ora che siamo nel pieno del Sinodo noto con meraviglia che questo non è come i precedenti sinodi perché allora si sapeva come andava a finire. Questo no. Per dire l’importanza che viene data alla ricerca della verità in questo momento storico della Chiesa. Nessuno tra noi è venuto con una agenda e potrà imporla. Siamo tutti fratelli nell’ascolto della volontà di Dio nella sua Chiesa. Vivo questo Sinodo con grande gioia e fiducia”.[11]

La parola del Signore ci è data non solo perché noi la ascoltiamo, (da soli e in comunità) ma perché la possiamo attuare, mostrarla viva, quale essa realmente è. E qui però dobbiamo fare i conti con un altro ascolto che è quello della storia. Una realtà che ci si mostra sempre in cambiamento e che ha urgenza di essere analizzata e affrontata con responsabilità. Scriveva il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer che “Per quanto in ciò che precede i fatti ci possano essere molti fallimenti, molti errori, molte colpe umane, nei fatti stessi c’è Dio. Se passeremo indenni attraverso le settimane e i mesi che verranno, riconosceremo poi con molta chiarezza che per noi era bene che le cose andassero proprio come sono andate. L’idea che molte difficoltà nella nostra vita avrebbero potuto essere evitate se avessimo vissuto meno coraggiosamente è davvero troppo stupida per poterla prendere sul serio anche un solo istante. Pensando al vostro passato, per me è talmente certo che quanto è accaduto finora era giusto, che anche il presente può essere soltanto tale. Rinunciare a gioie autentiche e a una vita piena per evitare la sofferenza non è sicuramente cristiano e nemmeno umano.”[12]

L’ascolto della parola di Dio e della storia non si collegano però automaticamente. Abbiamo bisogno di permettere alle due istanze di collegarsi dentro di noi e dentro alla nostra esperienza ecclesiale. Di fronte alla parola di Dio che entra nella mia storia e nella storia della chiesa e del mondo la reazione registrata dai Vangeli e dagli Atti è quella di un “cuore” che cambia; in Atti 2,37 si legge: “all’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: Che dobbiamo fare fratelli?”. E ancora i due di Emmaus riconoscono: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?” Lc 24, 32. Il cuore viene indicato come il luogo della “mediazione” fra l’ascolto e la vita, con tutto il simbolismo spirituale che questo elemento porta con sé. A Dio che lo interroga su un dono da ricevere, Salomone risponde “Concedi al tuo servo un cuore docile (lev shomea), perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso? (1Re 3, 9) Se ci è richiesto di fare lo sforzo di tradurre tutto questo nella nostra esperienza personale, ancor di più dobbiamo tradurre l’ascolto in una esperienza comunitaria (movimento, gruppo, associazione) e soprattutto in quella ecclesiale. L’ascolto non è il semplice esercizio di un godimento intellettuale o artistico, ma deve diventare l’inizio di un processo più grande che preveda passi successivi, ma che ritorni sempre alla fonte: al primo posto c’è il Signore che parla e che ci invita. E’ stata questa la dinamica della prima comunità cristiana che può essere paradigma di quanto il Signore chiede anche a noi come cristiani e come ecclesia. Del resto una Comunità credente che non si pone in ascolto si mostra chiusa alla novità e alle invisibili sorprese di Dio, e non potrà, così, risultare credibile.

ASCOLTO DELLA PAROLA E DELLA STORIA E DISCERNIMENTO

La dynamis dello spirito Santo spinge gli apostoli di fronte ad alcuni avvenimenti storici davanti ai quali non si può far finta di niente. Il primo problema affrontato è la sostituzione di Giuda, che ha tradito. Pietro si alza (anàstas) e prende la parola davanti a 120 persone (è il numero minimo per costituire una nuova sinagoga). Se Gesù è risorto dal sepolcro, qui è la chiesa che con Pietro risorge, prendendo in mano la storia che sta vivendo. E rilegge la storia di Giuda senza tacere il fatto che Giuda era del numero dei fratelli, esercitava lo stesso ministero. La comunità ferita dalla vicenda di Giuda si fa curare dalla lettura della Scrittura dentro a cui cerca il senso della storia contingente. E così rischia il “discernimento”. Nessuna lettura fatalistica o cinica, ma la necessità rappresentata dalla comunità che sceglie un nuovo membro. E il rischio si corre, prendendosi la libertà di scegliere senza avere punti di appoggio, senza avere la soluzione a portata di mano, senza avere qualcuno che dica che è meglio o è peggio. Si sceglie perché è camminando che la comunità costruisce la propria identità. Come ricorda una bella canzone di Giorgio Gaber: “Perché il giudizio universale non passa per le case, le case dove noi ci nascondiamo; bisogna ritornare nella strada, nella strada per conoscere chi siamo. C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza. C’è solo la voglia e il bisogno di uscire di esporsi nella strada, nella piazza. Perché il giudizio universale non passa per le case, in casa non si sentono le trombe, in casa ti allontani dalla vita, dalla lotta, dal dolore e dalle bombe.”[13]

Mi piace leggere nel testo degli Atti lo stile con cui la comunità cristiana delle origini ha affrontato la storia che si presentava sempre inedita e provocatoria, un po’ come sta succedendo a noi, in questo “cambiamento d’epoca” così come lo ha definito Papa Francesco.[14] Sappiamo ad esempio che lì dove una situazione contingente crea divisione le differenze si radicalizzano e diventano occasione di conflitto; quando si abbassa la tensione verso l’ideale e si perde come Comunità, la consapevolezza di essere unico corpo che ha un medesimo cuore, chiamato ad essere sale e lievito all’interno della storia dell’umanità, quella tensione che ci spinge ad uscire per la strada, la tensione inevitabilmente si ripercuote all’interno. I dodici si trovano dunque in una situazione storica che debbono ricomporre. Cosa fanno? (non fanno un processo per vedere di chi è la colpa…) Pensano, inventano, tentano … come con Mattia. Inventano i Sette (allargando di fatto il numero dei dodici). Uno dei sette viene catturato, portato al Sinedrio e ucciso. La storia di nuovo sorprende negativamente con la sua crudeltà. Eppure nemmeno la storia più brutta è capace di fermare la potenza dell’annuncio e della testimonianza, anzi, ci dice al cap. 8: “In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme; tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria. 2Uomini pii seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui. 3Saulo intanto cercava di distruggere la Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e donne e li faceva mettere in carcere. 4Quelli però che si erano dispersi andarono di luogo in luogo, annunciando la Parola.” La storia anche la più drammatica, è capace di mettere alla prova la nostra fede, e diventare il luogo per l’annuncio qualificato e nuovo a coloro che incontriamo. Perché la storia cambia: “Cambia ciò che è superficiale e anche ciò che è profondo cambia il modo di pensare cambia tutto in questo mondo. Cambia il clima con gli anni cambia il pastore il suo gregge e così come tutto cambia che io cambi non è strano.”[15] E se vogliamo stare nella storia abbiamo bisogno di conoscerla per poter annunciare la Parola che non cambia. E così l’ascolto della Parola si trasforma in discernimento per stabilire cosa fare, come muoversi, come rispondere responsabilmente a queste novità. Gli stessi apostoli e la stessa esperienza di chiesa cambia nome nel testo: sono i credenti, ma anche quelli della via, cristiani… C’è una identità “in progress” che obbedisce al progetto dello Spirito e non agli uomini.

Provo ad analizzare 3 situazioni limite affrontate dalla comunità ecclesiale delle origini, con gli eretici, con un marginale, con un persecutore.

  1. 1.    Filippo e i Samaritani

“Filippo, sceso in una città della Samaria, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città.”Atti 8,5-7

Possiamo fare numerose considerazioni sui samaritani, partendo da studi specifici sull’argomento, ma ci basta rileggere il brano di Giovanni 4 che ci riporta l’incontro di Gesù con la donna di Samaria per capire la distanza culturale ed affettiva fra ebrei e samaritani. Giacomo e Giovanni avevano invocato fuoco dal cielo su un villaggio di Samaritani che avevano rifiutato Gesù. Non avevano ancora lo Spirito del Figlio dell’uomo che è venuto a salvare, non a perdere i peccatori (cf Lc 9,54s). Ora un villaggio di Samaritani accoglie la Parola di Dio. Sono in ogni caso eretici.

Filippo si apre ai samaritani, e la predicazione ha successo. Ma si verifica un aspetto di fallimento nel fraintendimento di Simone mago.  L’episodio di Simone Mago – ha lo stesso nome di Simone detto Pietro! – fa da specchio al pericolo costante della Chiesa. La tentazione dell’avere e del potere e quella del possedere come qui, sono sempre in agguato. E qui il possesso non è riferito a beni materiali ma a Dio stesso. Possedere Dio significa dimensionarlo secondo le nostre prospettive e le nostre attese e pretese, farlo diventare a nostra immagine e somiglianza proiettando su di lui tutte le nostre colpe, tutti i nostri desideri di punizione, tutti i nostri deliri di onnipotenza. In ogni caso limitarlo nella sua onnipotenza, segregarlo all’interno dei nostri confini e delle nostre cornici dorate, per poter mettere le nostre mani su di lui. La tentazione di Simon Mago è speculare alla tentazione della Chiesa, ma Filippo sa lanciarsi nell’annuncio, senza troppe precomprensioni, senza pregiudizi nei confronti degli eretici per antonomasia, i Samaritani. Il successo della predicazione, nonostante tutto, è qualcosa su cui riflettere insieme Ecco che i fratelli a Gerusalemme si fanno carico di quanto è successo: “Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samaria aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni.” (8, 14) Interessante sapere da Atti che proprio uno di coloro che avrebbero mandato un fuoco a distruggere i Samaritani, Giovanni, va con Pietro a sostenere Filippo. Il discernimento fatto bene può aprire a strade complesse e che richiedono paziente attesa.

  1. 2.    Filippo e l’eunuco

Conosciamo il testo e non lo leggiamo per intero. Mi piace sottolineare un particolare annotato da Atti all’inizio del racconto: “Un angelo del Signore parlò a Filippo e disse: «Àlzati e va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta». (8,26) L’annotazione della direzione da prendere è chiara, verso mezzogiorno, e sembra una annotazione spaziale; qualche studioso sostiene che può essere considerata anche cronologica nel qual caso l’invito dell’angelo a Filippo suonerebbe così: Verso mezzogiorno va su quella strada deserta. Nessuno si muoverebbe verso mezzogiorno in Medio Oriente! E tantomeno su una strada deserta! E mi stimola un sorriso se penso alle nostre strategie evangelizzatrici, ai nostri programmi pastorali, alle nostre logiche legate ai numeri grandi… Filippo con noi avrebbe perso solo tempo… E invece Filippo si apre ad un eunuco, e per di più etiope (gli etiopi erano associati al male) e in quanto eunuco non può appartenere a pieno diritto al popolo di Israele. Il racconto si presenta come un modello di catechesi: come e chi accostare, cosa dire e cosa fare, quale il risultato. L’evangelizzazione non avviene per un progetto nostro, ma con l’adesione a ciò che lo Spirito indica e a ciò che sta accadendo, con attenzione alle persone, cominciando da ciò che escluderemmo come assurdo, improbabile o impossibile. Lì dove Dio è più presente. Perché sulla croce si è fatto vicino a ogni possibile e impossibile lontananza. E l’eunuco è un escluso che viene incontrato nella sua condizione oggettiva ed esistenziale. È un “diverso”, ma la Parola di Dio è anche per lui. Ma non è solo un racconto di una esperienza di catechesi riuscita, ma anche il modello di un discernimento a partire dalle domande: Fino a che punto possiamo aprirci? C’è un limite? Fino a dove possiamo arrivare? C’è una domanda che si riproporrà nella stessa forma anche successivamente negli Atti: “Cosa impedisce?” E la domanda del battesimo dell’eunuco trova adesione da parte di Filippo, che dà non solo una risposta affermativa, ma si coinvolge pienamente nella storia di quest’uomo (scese con lui nell’acqua). È Filippo che si prende la responsabilità coinvolgendosi in toto, agendo con libertà dando un sacramento a chi è escluso dalla salvezza in maniera pregiudiziale. Ha riconosciuto che lo Spirito di Dio era arrivato prima di lui nel cuore di quest’uomo e semplicemente registra che la Grazia sacramentale consegnata alla Chiesa, rimane sempre opera della Misericordia del Signore. Esemplificativo di questo atteggiamento è un passaggio della Amoris laetitia di papa Francesco: “Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che «un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà».”[16] Mi piace sottolineare anche un altro particolare offerto da Luca: “Quando risalirono dall’acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo e l’eunuco non lo vide più; e, pieno di gioia, proseguiva la sua strada. Filippo invece si trovò ad Azoto ed evangelizzava tutte le città che attraversava, finché giunse a Cesarèa.” Il discernimento ha come frutto anche la libertà, quella che si prende Filippo di andare a evangelizzare altrove e quella che lascia all’eunuco battezzato di fare la sua strada. Penso ai tanti accompagnamenti spirituali invischiati e che creano dipendenza, all’atteggiamento di chi presume di sapere quel è il bene degli altri senza accoglierli, ascoltarli, farsi loro prossimo; a chi tenta di normalizzare e monopolizzare l’azione dello Spirito con i propri sofismi o la rivendicazione di prassi tradizionali immutabili…

  1. 3.    La storia di un persecutore

La narrazione della conversione di Saulo è offerta da quattro testi, tre negli Atti e una in Galati. Saulo capisce per rivelazione (e non per annuncio) che il volto di Dio che si porta dentro è sbagliato e Gesù il Figlio di Dio gli rivela il volto autentico del Padre. La rivelazione a Paolo riceve qui solo un inizio, perché ha bisogno di trovare la sua dimensione ecclesiale. Ed è proprio grazie alla comunità che Paolo viene guarito dalla cecità. È l’incontro con Anania che fa capire a Paolo che non si crede da soli. La fede ha bisogno della comunità, altrimenti gli effetti speciali accecano. Cosa impedisce –sembra dire il testo- che Saulo possa far parte della Chiesa, lui che ha avuto questa rivelazione personale di Dio che la Chiesa con Anania ha riconosciuto? Certamente per Anania non è stato semplice accogliere l’indicazione di chi gli chiedeva di andare a cercare Saulo: “Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti quanto male ha fatto ai tuoi fedeli a Gerusalemme. Inoltre, qui egli ha l’autorizzazione dei capi dei sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome”. (9,13-14) Ma l’urgenza dell’annuncio prevale su ogni cosa, soprattutto sulle paure che ci mostrano l’altro sempre e solo come nemico. E quando ci muoviamo lungo questa direzione e offriamo il nostro ascolto e tendiamo le nostre mani succedono i miracoli. Ecco cosa ha detto Adriana Faranda rispetto al suo percorso di incontro e riconciliazione con i figli e i parenti delle vittime delle Brigate Rosse a cui apparteneva: “Guardare negli occhi i familiari delle vittime è difficile, eppure questa cosa ho sempre desiderato affrontarla perché mi metteva davanti al dolore dell’altro e mi metteva davanti a me stessa e anche al mio dolore, alle mie contraddizioni. Li ho cercati io questi incontri. Li ho accettati e mi sono sentita in un certo senso annientata. Ma, come dico sempre a Giovanni, Agnese, Giorgio, Manlio, Paolo, in nessun momento di questo percorso mi sono sentita sola, perché anche se guardandoli negli occhi mi sono sentita veramente scompaginata, come se mi fosse passato dentro uno di questi cicloni che adesso ci arrivano sempre più frequentemente, ho sempre avuto davanti una mano tesa: non mi è mai mancato questo. Sono stata strigliata, messa all’angolo, fustigata, mi sono state fatte delle domande tremende, ma ho sempre sentito che immediatamente dopo questo ciclone c’era una mano che mi sosteneva. Questa è la cosa importante.”[17] Per Anania, nonostante la sua giustificatissima paura e le sue resistenze, Paolo è comunque un fratello, e incontrandolo lo chiama così: “Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello, mi ha mandato a te il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada che percorrevi, perché tu riacquisti la vista e sia colmato di Spirito Santo» (9,17). Essere capaci di chiamare le cose con il loro nome significa operare una comunicazione corretta, assertiva e allo stesso tempo aperta all’altro, alla sua prospettiva, superando la logica del vincere/perdere, ma cercando insieme il bene possibile. 

Ascolto della Parola della storia e necessario discernimento.

Qual è l’obiettivo del discernimento in questo tempo di cammino sinodale?

Prima di ogni altro la consapevolezza che la chiesa tutta non può accontentarsi di essere solo ascoltatrice della Parola del Signore, come ci ricorda Giacomo “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era”. (1,22-24)    Prendere sul serio la Parola, farla diventare pane che sazia la vita e non solamente conoscenza accademica. Ma la conoscenza della Scrittura è indispensabile perché come diceva San Girolamo “l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”! Moltiplicare le occasioni e i luoghi in cui la chiesa si incontra per chiedersi: cosa dice la Parola che abbiamo ascoltato? Cosa dice a noi, alla nostra vita personale? Cosa dice alla nostra esperienza ecclesiale?

“La Parola qui evocata non è solo annuncio verbale, ma è dono sacramentale: è il mistero santo di Dio che si rende presente nell’agire ecclesiale per la vita del mondo (gestis verbisque). Se la Chiesa non ritorna al ‘roveto ardente’ con cui Gesù, partendo da Mosè ed Elia, ci illustra il venire di Dio nel mistero della sua croce e nel pane spezzato; se i discepoli in fuga verso Emmaus non ritornano sempre da capo a Gerusalemme e non ritrovano gli undici riuniti che continuano a proclamare l’un l’altro il kerygma, col nome antico di Pietro («Veramente il Signore è risorto ed è apparso a Simone» Lc 24,34), è impensabile riattivare qualsiasi slancio missionario. L’ospitalità dell’umano, oggi per lo più indifferente e inappetente, perché pieno di beni e povero di significati, che è proclamata da più parti come l’antidoto alla debolezza dell’annuncio cristiano, non ha senso solo come gesto di prossimità, se non riesce a introdurre nel mistero santo e incandescente del Dio di Gesù. Il suo volto è inenarrabile perché inesauribile, l’incontro con Lui è bruciante, perché ci guarisce dal nostro narcisismo, per introdurci nell’avventura dell’altro da sé e dell’intrico del mondo”[18]

Se la chiesa è chiamata ad ascoltare la parola non è chiamata di meno ad ascoltare la storia che è il luogo teologico dove il Signore continua a farsi presente: “Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Accettare che apparteniamo ad un “cambiamento d’epoca” che necessita di rivisitare tutte le nostre tradizioni, dalle più solenni alle più quotidiane, accettare di cambiare il nostro linguaggio, i nostri stili comunicativi, i parametri alti dei nostri riferimenti culturali, significa accettare che il Signore continua a rivelarsi anche dentro alle nostre contraddizioni umane, sociali, relazionali significa, in ultima analisi accettare il paradosso del Vangelo che continua a ricordarci che “Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro (…) Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no”, lì egli dice “sì”. Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente e incomparabile. Dove gli uomini dicono “spregevole”, lì Dio esclama “beato”. Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima. Lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia.”[19]

Vivere il Sinodo a livello mondiale o a livello locale significa mettersi in atteggiamento di discernimento accogliendo le sfide che la storia ci sta proponendo e che ogni comunità riconosce nel proprio ambito. Superare la tentazione di chi dice: si è sempre fatto così e quindi vuol dire che è bene così. Se gli Apostoli si fossero attestati a questo livello, probabilmente noi non saremo qui stasera. Se i Padri della chiesa non avessero tentato il dialogo con le culture del tempo che hanno fatto da veicolo al cristianesimo, la chiesa sarebbe probabilmente ancora legata alla cultura palestinese del primo secolo dell’era volgare. Se il Concilio di Trento avesse pensato così, non avrebbe dato forma compiuta al settenario sacramentale. Se i padri conciliari del Vaticano II avessero pensato così, la chiesa sarebbe diventata in questi ultimi cinquant’anni ancora più ininfluente e marginale di quanto non lo sia in questo momento.

Siamo chiamati a superare come singoli e come comunità la tentazione del potere che si insinua sempre come ferita nella nostra storia di relazione umana e nella nostra storia ecclesiale: “La malattia del sentirsi «immortali» o «indispensabili», la malattia dell’eccessiva operosità, la malattia dell’«impietrimento» mentale e spirituale, la malattia dell’eccessiva pianificazione, la malattia dell’Alzheimer spirituale, la malattia della rivalità e della vanagloria, la malattia della schizofrenia esistenziale, la malattia delle chiacchiere, dei pettegolezzi e della maldicenza, la malattia di divinizzare i capi, la malattia dell’indifferenza verso gli altri, la malattia della faccia funerea, la malattia dell’accumulare, la malattia dei circoli chiusi, la malattia del profitto mondano, degli esibizionismi.”[20]  

Cosa sta chiedendo il Signore alla Chiesa, anche a questa nostra Chiesa locale? Qual è la sua proposta? E quali sono le congiunture esistenziali nelle quali ci troviamo? Chi sono gli eretici che volentieri escluderemmo dalle nostre assemblee, dai nostri circoli, dai nostri ministeri? Chi sono gli impuri che abbiamo bollato spesso col marchio dell’infamia o nei confronti dei quali abbiamo saputo solo esprimere un ipocrita giudizio di tolleranza? Chi sono i persecutori nei confronti dei quali abbiamo provato rancore, rabbia ma nei confronti dei quali non abbiamo speso un minuto per ascoltarli e tendere loro la mano? A proposito dei quali davvero non hanno nulla da dirci il diacono Filippo, Anania, Pietro e Giovanni e tutta la comunità di Gerusalemme? Celebrare il Sinodo significa mettersi in atteggiamento abituale di discernimento per l’avvento del Regno di Dio perché, come ci ricorda Gesù “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga.” (Mc 4,26-29)

[1] SALVARANI B., Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano, Laterza 2023

[2] GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Sollicitudo Rei Socialis, 30.12.1987, 36.

[3] VASTANO A., Voglia di comunità, in “La città futura”, 9.6.2018,

in https://www.lacittafutura.it/recensioni/voglia-di-comunita-prima-parte#:~:text=Cos%C3%AC%20Umberto%20Eco%20spieg%C3%B2%20il,di%20ciascuno%2C%20da%20cui%20guardarsi.

[4] The Times They Are A-Changin’, Brano di Bob Dylan.

[5] DE CERTEAU M., Mai senza l’altro, Qiqaion 1993.

[6] Ibidem.

[7] JONAS H., Il principio di responsabilità, Torino, Einaudi, 1990.

[8] NATOLI S., Rigenerare la solidarietà nei territori, in https://www.cooperativasolidarieta.it/foto/Rigenerare_la_Solidariet%C3%A0_nei_territori.pdf

[9] PAPA FRANCESCO, Omelia per il momento straordinario di preghiera in Piazza San Pietro, 27 marzo 2020, in https://www.vatican.va/content/francescomobile/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200327_omelia-epidemia.html

[10] DE LUCA E. Nocciolo d’oliva, Messaggero Padova, 2002, 41.

[11] MANCINI M., Il diario del Sinodo, la rottura sempre più netta con il metodo del passato, in ACISTAMPA, 7 ottobre 2023. Cfr. https://www.acistampa.com/story/il-diario-del-sinodo-la-rottura-sempre-piu-netta-con-il-metodo-del-passato#:~:text=Da%20quando%20abbiamo%20iniziato%20siamo,questo%20momento%20storico%20della%20Chiesa.

[12] BONHOEFFER D., Resistenza e Resa, San Paolo, Milano 1988, 261.

[13] GABER G., C’è Solo La Strada – 1974/1975

[14] Cf. V Convegno della Chiesa in Italia, nel mese di novembre del 2015 a Firenze: “Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli”.

[15] NUMHAUSER J., Todo cambia, 1983.

[16] PAPA FRANCESCO, Lettera Enciclica Amoris Laetitia, 305.

[17] GUIDONE A. (a cura di), Vagliate ogni cosa, Ancora, Milano 2020, 48-49.

[18] F. G. BRAMBILLA, RIV Clero it, n. 10 (2023) pp. 656- 657

[19] BONHOEFFER D., Riconoscere Dio al centro della vita (Testi per l’anno liturgico), Queriniana, Brescia 2014, 35.

[20] PAPA FRANCESCO, Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2014; cfr https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/december/documents/papa-francesco_20141222_curia-romana.html