La traccia di don Lorenzo Milani

A 60 anni dalla sua fondazione, la scuola di Barbiana insegna condivisione.

“Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola.

Io ho insegnato loro soltanto ad esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere”.

Il 14 novembre del 1954 don Lorenzo Milani venne nominato priore di Barbiana, un piccolo agglomerato di case nel Mugello dove mancavano perfino acqua e corrente elettrica. Proveniva dall’esperienza di Calenzano, dove era stato parroco dall’ottobre del 1947 e dove aveva avviato quella attività di alfabetizzazione dei figli dei pastori e dei contadini che poi avrebbe ripreso, esattamente sessant’anni fa, a Barbiana. Che cosa è rimasto di quell’esperienza? Ci aiuta a capirlo, anche visivamente, un recente volume, “La memoria dei luoghi. Sulle tracce di don Lorenzo Milani” (Ancora, 107 pagine) curato da Francesca Cosi per quello che riguarda i testi e Alessandra Benossi per il corredo fotografico. Possiamo ripercorrere in questo modo la breve esistenza di don Milani, tra la Firenze della sua nascita il 27 maggio 1923 e quella della sua scomparsa nel 1967 a seguito di una grave malattia, anche se volle essere sepolto nella “sua” Barbiana, dove aveva portato a compimento il suo percorso di amico degli ultimi.

Da questa carrellata, veloce ma non priva di stimoli per una più profonda riflessione, si intuisce quanto possa aver contribuito alla sua scelta di “maestro” della povera gente una sorta di senso di colpa per una giovinezza trascorsa negli agi e con la possibilità di studiare senza lo spettro del lavoro giovanile o dell’emigrazione. Don Milani, infatti, apparteneva a una facoltosa famiglia che gli permise sia gli studi superiori sia la frequenza dell’artista Hans Joachim Staude, nata per il suo desiderio di imparare a dipingere. Ma Staude gli instillò anche l’ansia della verità e della ricerca spirituale che portarono il giovane Lorenzo a chiedere il battesimo e alla ricerca della sua missione nella vita: entrò, lui di famiglia colta e agnostica, nel seminario arcivescovile di Firenze nel 1943 e venne ordinato sacerdote quattro anni più tardi.

Fu proprio la cultura una delle dimensioni che lo portò a riflettere sulla sua, di cultura. Il libro ci aiuta a capire come questo sia stato un nodo importante per la maturazione delle sue decisioni. Un contadino, scrisse una volta don Lorenzo, si è rotto la schiena, rimanendo analfabeta, lui e i figli, ma “ha fatto vivere, non solo vivere, ma studiare, il nonno del padrone e poi il padrone e poi il signorino”. Il signorino si è riempito –continua nello stesso testo il giovane prete – la casa di libri senza aver fatto mai niente. Il “signorino” si laurea, fa l’assistente volontario all’università perché se lo può permettere di lavorare gratis, tanto, afferma don Lorenzo, “la famiglia secolarmente analfabeta di Adolfo mantiene agli studi la famiglia secolarmente universitaria del signorino”. Parlare di senso di colpa non vuol dire cercare una fredda causa nella “colta”, direbbe don Milani, psicoanalisi, ma anzi individuare una molla in positivo, segno di una profonda, e talvolta lacerante sensibilità. Il destino degli uomini che hanno fatto la storia è pieno di crisi e di motivi che potrebbero essere analizzati razionalmente e che però rimarrebbero pur sempre elementi creativi, che hanno fatto, ad esempio, la grande narrativa di un Tolstoj o la svolta radicalmente religiosa di un Clemente Rebora. Anziché incatenare ad una gelida analisi pseudo-scientifica, il riferimento a cause lontane, come il senso di colpa per una ricchezza immeritata, servono a capire come possano essersi sviluppate grandi esperienze umane. Come la scuola di Barbiana, che scandalizzò i più ma che nel contempo aprì una finestra sul mondo della miseria, della fatica e della condanna all’ignoranza della gente povera.

Le foto del volume ci mostrano i luoghi (e i visi dei protagonisti, gli studenti di allora) di quella “provocazione” operata da un benestante che aveva lasciato la sua classe per andare a vivere, e non a chiacchierare, dall’altra parte. Si può pensarla come si vuole, ma da queste pagine emerge una delle poche cose che convincono davvero la gente: la condivisione fino alla fine.