Cultura
L’empatia per i robot
I tratti umanoidi stimolano una reazione emotiva negli uomini.
Ma quanto possono “empatizzare” un essere umano e un robot? Beh, da parte del robot non lo sappiamo (probabilmente molto poco!). Da parte umana, invece, pare che vi sia una grande “apertura” anche a queste macchine “umanoidi”.
Almeno così risulta da una ricerca, condotta da Michiteru Kitazaki e colleghi, della Toyohashi University of Technology (Giappone), di recente pubblicata sulla rivista Scientific Reports.
L’empatia, come è noto, corrisponde alla capacità della mente umana di cogliere e rappresentarsi le emozioni e gli stati d’animo presenti in altri individui. Grazie all’empatia, per esempio, siamo in grado di consolare gli altri quando sono in difficoltà, o di partecipare alla loro felicità in occasione di un evento gioioso. Cose queste che, normalmente, avvengono tra umani.
Ma cosa succederebbe se di fronte a noi, anziché una persona, ci trovassimo un robot umanoide? Le sembianze e il comportamento “antropomorfo” della macchina sarebbero sufficienti a far scattare in noi una qualche forma di empatia nei loro confronti?
Probabilmente pochi di noi finora si erano posti la domanda, anche perché appare decisamente remota la possibilità di doversi misurare con la presenza quotidiana di un robot “dal volto umano”. Ma, evidentemente, visti i rapidi sviluppi della tecnologia robotica, il gruppo di ricercatori giapponesi coordinati da Kitazaki ha pensato che fosse un quesito sensato ed interessante, tanto da farne oggetto di ricerca. E la cosa sorprendente è che la risposta emersa è positiva: i soggetti umani studiati hanno manifestato nei confronti dei robot umanoidi una qualche forma di empatia, anche se le differenze con la capacità empatica tra umani c’è, ed è pure evidente.
Del resto, già precedenti studi di neurobiologia avevano messo in rilievo che l’empatia è un fenomeno alquanto complesso, implicante due diversi processi di elaborazione da parte del nostro cervello, detti rispettivamente “bottom-up” e “top-down”. Il primo ci consente di condividere in modo diretto gli stati emotivi delle altre persone. Il secondo, invece, ci permette di comprendere in modo pieno le emozioni degli altri.
L’elaborazione di questo secondo processo empatico – il top-down – da parte del cervello di un soggetto può essere evidenziata mediante un tracciato elettroencefalografico (elettroencefalogramma), sotto forma di uno spostamento in una particolare curva, denominata P3.
Partendo da questo dato, Kitazaki e colleghi hanno chiesto a 15 soggetti adulti sani di sottoporsi ad un test specifico, durante il quale venivano monitorati con l’elettroencefalografia. Il test consisteva nell’osservare una serie di immagini in cui erano ritratti esseri umani e robot in situazioni dolorose, per esempio mentre si producevano una ferita con un coltello, oppure neutre.
“La fase ascendente di P3, – ha spiegato Kitazaki – che si registra 350-500 millisecondi dopo la presentazione dello stimolo, mostrava una differenza tra l’osservazione delle situazioni dolorose e quelle non dolorose quando erano coinvolti esseri umani, ma non quando riguardavano robot; le differenze tra esseri umani e robot invece scomparivano nella fase discendente di P3, che si registra 500-650 millisecondi dopo lo stimolo”.
In sintesi, dunque, i risultati indicano che i soggetti empatizzavano con i robot umanoidi in modo simile a quanto avveniva con gli altri esseri umani, anche se l’elaborazione dell’empatia era inizialmente più lenta osservando i robot umanoidi. Un segnale chiaro che i soggetti umani sottoposti al test mantenevano una certa difficoltà ad assumere “il punto di vista” del robot. Come dire: tra uomo e macchina rimane una differenza sostanziale, che appare incolmabile! E meno male!