Il triste spettacolo del dolore

Il terremoto in Centro Italia ha moltiplicato gli sguardi morbosi.

Raccontare la tragedia, la morte e il dolore in maniera responsabile e rispettosa delle vittime può essere molto difficile. Ma questo non giustifica l’overdose di speculazioni e di episodi di sciacallaggio perpetrati non dai delinquenti che entrano nelle case dei terremotati per saccheggiarle bensì da (presunti) giornalisti televisivi che si recano sul posto per svolgere il loro compito nel modo peggiore.Anche in occasione del terremoto che in questi giorni ha sconvolto l’Italia centrale, come già successo in troppe altre circostanze, c’è stata una larga parte dell’informazione televisiva che è servita soltanto ad alimentare la tv del dolore e a trasformare il dramma degli abitanti di quei luoghi in un tragico spettacolo.In situazioni come queste, l’informazione televisiva – la più immediata ed efficace, in ragione delle caratteristiche del mezzo – deve privilegiare la sua funzione di servizio, innanzitutto verso chi ne ha più bisogno: le vittime del terremoto e i soccorritori. Gli spettatori vengono dopo e devono essere coinvolti in ragione della loro possibilità di fornire aiuto, non certo per solleticarne la curiosità morbosa.Invece, ancora una volta il giornalismo della catastrofe si è concentrato sulla cinica e puntuale conta dei morti, aggiornata rigorosamente in diretta, sui primi piani dei volti piangenti degli abitanti del luogo, sull’inseguimento delle storie più tragiche e strappalacrime, sui racconti dettagliati della disgrazia estorti a chi miracolosamente è riuscito a evitare la morte.Ci è toccato vedere inviati d’assalto impegnati a inseguire madri che in lacrime correvano piangenti per vedere se i loro figli sepolti dalle macerie fossero ancora vivi, croniste pronte a spianare il microfono e le telecamere sotto il naso di persone in lacrime di fianco ai resti delle proprie case distrutte, incursioni nei luoghi di accoglienza temporanea sotto i tendoni della protezione civile per scavare senza pietà nelle vite precarie e negli sguardi smarriti della gente.Ci è toccato sentire echeggiare più e più volte la più odiosa, insulsa e irrispettosa domanda che un (presunto) giornalista possa rivolgere a chi ha subito una tragedia: “Cosa prova in questo momento?”. Oppure assistere a una tirata dell’incorreggibile Bruno Vespa sul terremoto come possibile volano per l’economia, in virtù di una ricostruzione che “creerà per forza di cose nuovi posti di lavoro”. O ancora trovarci di fronte un’inviata sul posto che affermava, convinta: “Le persone hanno voglia di parlare, di condividere il loro shock, le loro emozioni e il loro dolore per la tragedia”. Ne siamo sicuri?Non da meno – purtroppo – è stato chi, sempre fra i giornalisti televisivi, ha avuto la pessima idea di intervistare le persone che hanno dormito in auto, in lacrime, con tanto di primi piani prolungati su chi si copriva il volto per cercare di conservare quel minimo di riservatezza e di pudore che le circostanze potevano permettere. O chi, con il pretesto di un servizio contro lo sciacallaggio furtivo dei delinquenti pronti ad approfittarsi delle case vuote, ha a sua volta messo in atto uno sciacallaggio mediatico e morale per certi versi ancora più grave, perché molto più difficile da contrastare da parte di chi lo subisce.Dall’informazione televisiva (e giornalistica in generale) in circostanze come queste vogliamo altro. Vogliamo sapere cosa è successo e perché, quali possono essere le possibili conseguenze e, soprattutto, come possiamo tutti quanti essere in qualche modo utili in soccorso di chi è stato colpito direttamente dal dramma. I punti di vista e i pareri di improvvisati esperti non ci interessano. La presenza ingombrante delle telecamere che intralciano il lavoro dei soccorritori non ci piace. Le fesserie criminali di chi è riuscito a tirare in ballo a sproposito, tanto per cambiare, i migranti che vivrebbero in condizioni migliori degli sfollati ci fanno letteralmente schifo. Le uniche storie degne di essere raccontate sono quelle di chi, senza parlare a vanvera, si è immediatamente rimboccato le maniche e ha trovato il modo di rendersi utile; possono essere un esempio da imitare.