Compie 80 anni la magica tata Mary Poppins

Helen Lyndon Goff (1899-1996), meglio conosciuta con lo pseudonimo di Pamela Lyndon Travers, è la "madre" della baby sitter per antonomasia. Cedette solo dopo 14 anni alla corte di Walt Disney per concedergli i diritti cinematografici (la lotta tra i due è narrata nel film "Saving Mr Banks") ma volle essere presente alla costruzione del film passo dopo passo, anche se non fu mai veramente contenta

Mary Poppins ha ottant’anni, ma dice di averne cinquanta. Nata come romanzo nel 1934, è stata infatti ripresa da Walt Disney nel 1964 per diventare uno dei best sellers assoluti del cinema internazionale. Non solo per chi era bambino in quegli anni: la figlia di chi scrive, che ha 9 anni, usa dire, allo scadere del 2014, “è come la borsa di Mary Poppins” alludendo a piccoli contenitori dai quali esce di tutto. Il regista del film, Robert Stevenson, non tenne molto conto del primo dei libri sulla tata più famosa del mondo, tralasciando episodi che invece ancora oggi affascinano in un libro “per grandi e non” come amava dire l’autrice, Helen Lyndon Goff (1899-1996) meglio conosciuta con lo pseudonimo di Pamela Lyndon Travers. La scrittrice, ma anche attrice e danzatrice, si era trasferita in Inghilterra dalla natìa Australia, dove non aveva vissuto una infanzia felice: aveva dovuto fare i conti con l’alcolismo del papà e le crisi depressive della madre ed è probabile che quella decisione di prendere una nuova identità abbia significato il tentativo di una rinascita. Ma la sua creatura più celebre, la baby sitter per antonomasia, (che conobbe una serie di sequels, nessuno in grado di oscurare la fama del primo) aveva già dalla sua creazione le stigmate della cura, intesa come attenzione verso l’altro, perché la Travers la ideò, ancora adolescente, per alleviare la pena dei suoi fratelli di fronte alle vicissitudini familiari. Mary nasce dalla carne viva di una apparente sconfitta. Ecco perché non è mai smielata, gentile, anzi, talvolta brusca e permalosa: non risponde ad un modello esterno creato a furia di letture e compassione, ma è la vita così come è, senza troppo galateo, con la necessità acquattata dietro l’angolo che fa capolino e richiede sguardo fermo e capacità di saper schivare i colpi. Altro che bontà gratuita e svenevolezze, che alcuni credettero di riconoscere in lei avendo visto solo il film, senza leggere il racconto. Mary la bambinaia non sorride quasi mai, perché la vita non ha sorriso alla sua creatrice. È brusca, perché la piccola Helen ha avuto a che fare con gli umori di un padre che beveva; tratta talvolta con asprezza i due bambini (ce ne sono altri due, piccolissimi, nel novel, che non hanno trovato posto nel film) per il semplice motivo che non si può correre il rischio di vedere solo belle maniere nella vita. Però la Mary di carta ci dice un’altra cosa: che esiste la salvezza, che non è nei modi esteriori, ma nel concreto aiutare se stessi e gli altri, perché la vita non aspetta. Proprio come lei, che apparentemente senza pietà abbandona la casa “graziosa, lucida, confortevole e quattro bambini”, con la precisazione che papà e mamma Banks non avevano potuto prendere una casa più grande, perché hanno dovuto scegliere tra questa e una prole numerosa: “Le due cose insieme, infatti, non potevano permettersele”, che è un altro accenno al duro scontro tra realtà materiale e affetti veri. Ma deve andarsene per permettere ai ragazzi di crescere, dimenticare, e farsi largo nel mondo dei grandi. Il mondo dei piccoli è un paradiso che deve essere perduto, pena la fissazione psichica in un passato che deve andarsene per forza, ed ecco che i due gemellini ad un certo punto cessano di capire il linguaggio della natura, nella quale erano immersi beati. “Così è accaduto”, dice un uccellino a Mary quando si accorge che i due gemellini nella culla non chiacchierano più con lui nel modo naturale degli esseri che non hanno bisogno di parole. “Mi piaceva tanto parlare con loro”, sussurra l’uccello alla protagonista abbandonando per sempre la casa. La natura, la stagione pre-logica è la grande madre, la creazione colta nella sua misteriosa circolarità, dove si parla la lingua divina della comunione con l’essenza. “Siamo fatti della stessa sostanza, l’albero sopra di noi, il suolo sotto di noi, l’uccello, la belva, la stella, siamo tutti un’unica cosa, tutti ci muoviamo al medesimo fine. Ricordati questo, quando ti sarai dimenticata di me, bimba mia”, dice il cobra in una delle pagine più profonde del libro, anch’essa esclusa dalla sceneggiatura del film. La Travers cedette solo dopo 14 anni alla corte di Disney per concedergli i diritti cinematografici (la lotta tra i due è narrata nel film “Saving Mr Banks”) ma volle essere presente alla costruzione del film passo dopo passo, anche se non fu mai veramente contenta. Non solo perché era una rompiscatole, ma perché sapeva che la fine del paradiso su questa terra non può essere raccontato da nessuna voce umana. Per questo continuò fino alla fine a cercarlo nelle religioni e nelle discipline orientali. In barba a chi sostiene che l’eden perduto sia solo una favoletta per bambini. Come Mary Poppins.