Cultura
Il “grande crollo”: ieri e oggi
La riedizione di un celebre libro di Galbraith illumina pure la crisi del 2008.
“Per il pareggio del bilancio egli (Richard Withney, sostituto presidente del comitato direttivo della Borsa di New York subito dopo il grande crollo, ndr.) raccomandò la riduzione delle pensioni e delle provvidenze per gli ex-combattenti che non avessero inabilità contratte in servizio, e inoltre la riduzione di tutti gli stipendi statali”.È questo il motivo per cui oggi parliamo di economia. Non in quanto disciplina in sé e per sé, perché non sarebbe questa la sede, ma in quanto memoria storica di come la piccola borghesia (e la fascia immediatamente sottostante) sia destinata da sempre ad essere nel mirino delle soluzioni finali. Quelle parole d’apertura sembrano scritte oggi, ed invece risalgono a dopo il grande crollo del ‘29. Quando fu messa su una commissione d’inchiesta per fare luce sulle responsabilità della sciagurata settimana che travolse la borsa e poi anche l’economia, non solo degli Stati Uniti.Per questo è importante riandare a quei terribili giorni: per capire che le soluzioni dei tagli delle pensioni e degli stipendi medio-bassi non sono ricetta d’oggi, ma ritornano ad ogni stagnazione economica. Per capire che l’assottigliamento della classe media è un fortissimo campanello d’allarme. Ci aiuta in questo la riedizione di un libro epocale, “Il grande crollo” (Bur, 183 pagine) di qualcuno che di economia se ne intendeva. Perché John Kenneth Galbraith, uomo politico, ambasciatore, consigliere economico di presidenti come Roosevelt, Kennedy e Clinton, docente universitario a Princeton, Cambridge ed Harvard, è stato uno di quelli che ha fatto la storia del Novecento.La sua idea di economia è, se volessimo semplificarla indegnamente, assai prossima a quella keynesiana: lo Stato deve intervenire attivamente quando si profilano venti di tempesta, e l’accumulazione sfrenata è pericolosa per l’economia stessa, per la qualità della vita, per la salute della gente. “La società opulenta” (The affluent society), titolo di un suo famoso libro, è passato nella terminologia corrente a definire il dominio dei consumi sul cittadino.Galbraith, pur avendo fatto parte integrante dell’establishment politico-economico che ha governato l’occidente dagli anni Trenta, ha sempre tenuto d’occhio la qualità della vita e i bisogni della gente. Il prodotto interno lordo fine a se stesso per lui era una minaccia alla libertà e alla felicità, non un fattore di progresso; questa convinzione è ancora viva in alcuni ambienti democratici statunitensi, e gli è costata al tempo, era il momento della caccia alle streghe, l’accusa di comunista.Ma torniamo al grande crollo, che non è stato – per alcuni – “il”, ma “uno” dei grandi crolli che l’economia capitalistica è destinata per sua stessa natura a subire ciclicamente. Galbraith, che è scomparso nel 2006, due anni prima della implosione della Lehman Brothers, e non ha fatto in tempo a constatare la giustezza della sua tesi, insiste sulla deposizione di Withney, l’uomo chiamato a traghettare la borsa dopo il crollo del Ventinove. Anche qui, e non senza qualche brivido, ci rendiamo conto che quasi nulla è cambiato, neanche nella auto-percezione dei privilegiati. Dopo aver proposto licenziamenti e abolizioni di pensioni ai combattenti, il dirigente deve rispondere della sua posizione personale. Lungi dal sospetto di ridicolo, o peggio di cinismo, di fronte alla marea di licenziati costretti alle mense di strada, Withney “interrogato circa l’opportunità di ridurre la propria paga, rispose che no, che era ‘molto bassa’. Incalzato dalle domande circa il suo ammontare, disse che era solo di 60.000 dollari circa”.Per avere un’idea di cosa significasse quella cifra negli anni della depressione, si pensi che essa era sei volte di più dello stipendio di un senatore Usa.Altre importantissime informazioni ci vengono da questo documentato studio che risale al 1954, e che è anche un godibilissimo mix di economia, filosofia, psicol ogia, addirittura letteratura. È uno dei rarissimi libri che ci danno lo Spirito del Tempo, in quanto il suo autore è stato testimone e protagonista di quei tragici giorni che, come lui stesso afferma, ci hanno lasciato in eredità inquietanti domande sulla ragione d’essere della borsa (il nostro Federico Caffè avrebbe avuto molto da dire su questo) e sui suoi rapporti con l’ economia reale.