Cultura
Gyllenhaal sale sul ring
“Southpaw” è la storia di redenzione di un uomo che credeva di avere tutto.
Il cinema è sempre stato attratto dalle storie che hanno a che fare con lo sport. Le imprese eccezionali di singoli atleti, soprattutto, che siano sui campi da baseball, football e basket (gli sport nazionali americani) o meglio se sono su un ring di boxe, hanno trovato mille rappresentazioni e celebrazioni cinematografiche. Perché sono la parabola migliore per racchiudere l’idea tutta americana del self-made man: un uomo (o una donna, anche se più raramente) che nonostante difficoltà e insuccessi, con la lotta e il sacrificio ottengono il successo. Le parabole sportive sono, dunque, i migliori esempi per raccontare lo spirito positivo ed individualista americano. Sia nel positivo che nel negativo. Basti pensare al “Rocky” di Silvester Stallone, da una parte, e al Jack La Motta di “Toro Scatenato” di Martin Scorsese: due modelli uguali e opposti, due boxeur che partono dal basso, che si impegnano al massimo, vincono, ma uno riesce a gestire il successo l’altro si perde rovinosamente. Il mito americano, dunque, che può salvare ma anche distruggere. Oggi è Jake Gyllenhaal, uno degli attori americani più interessanti, a salire sul ring per raccontarci una storia di successo, perdita e riscatto. E, contemporaneamente, Gyllenhaal è presente anche al Festival di Venezia, con il film di apertura “Everest”: avventura in 3D che racconta la storia vera di una serie di scalatori che morirono in una missione sulla montagna più alta del mondo. Un altro ruolo estremo e fisico per questo giovane attore che ama rischiare nelle sue interpretazioni. Non a caso lo scorso anno era candidato all’Oscar come miglior attore per la sua performance in “Lo sciacallo” per la quale era dimagrito di ben trenta chili.
Billy Hope ha tutto quello che un uomo potrebbe desiderare. Una decappottabile metallizzata, una villa da sogno, un costosissimo orologio di Cartier, una moglie innamoratissima e il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. La favola, però, è destinata a infrangersi in mille pezzi, costringendo il pugile a fare i conti con la dura realtà e a riprendere in mano la propria vita dal basso, dalle palestre umide di periferia allo sfarfallio delle luci di un monolocale di New York. “Southpaw”, letteralmente “pugile mancino”, è questo e molto altro: la storia di redenzione di un uomo che credeva di avere tutto e che, con uno schiocco di dita, perde tutto quello per cui ha faticosamente combattuto. Jake Gyllenhaal, qui ingrassato di ben venti chili di muscoli per il ruolo è convincente, diviso fra un’aggressività che stenta a controllare e la dolcezza tipica di un film sentimentale, un po’ come il Russell Crowe di “Cinderella Man”, smarrito e pronto a tutto. La presenza di guest star d’eccezione, come il rapper 50 Cent nel ruolo del manager senza scrupoli e di Rita Ora, moglie tossicodipendente del nemico numero uno di Hope, non fanno altro che rimescolare le carte e conferire alla pellicola un gusto pop, lontano dai lirismi della Hollywood bene e deciso ad arrivare alla pancia del pubblico. Le lacrime, complice un’attenta colonna sonora, cadono copiose, così come il terrore che il sangue ristagni nell’occhio di Gyllenhaal da un momento all’altro. Il risultato è un film piacevole, che ci assorbe totalmente per 124 minuti, ma che ci fa ben immaginare come andrà a finire. Un nuovo film sull’etica americana del riscatto che non aggiunge né toglie nulla alla rappresentazione che il cinema ha già aiutato a creare.