Cultura
Lo sguardo in tv non è neutrale
Il cinico gioco dell'audience si fa sulla pelle dei migranti.
Il filmato che ritrae un’operatrice video ungherese che fa lo sgambetto a un uomo in corsa con il figlio in braccio provocandone la caduta ha fatto il giro del mondo, suscitando la giusta indignazione del pubblico. Il pessimo gesto è stato documentato dagli stessi colleghi della protagonista, presenti sul luogo in forze come oramai siamo abituati a vedere in ogni situazione in cui transitano o si concentrano masse di persone in fuga dalla guerra, dalla persecuzione e dalla fame, in cerca di un futuro migliore.Le cronache di questi ultimi giorni hanno conquistato stabilmente un ampio spazio nei telegiornali e nei programmi televisivi di vario genere, dai talk di approfondimento alle trasmissioni salottiere. Molti di questi programmi cercano insistentemente di catturare l’attenzione del pubblico giocando sugli eccessi degli ospiti o sugli interventi, tanto folcloristici quanto inaccettabili, di manipoli di sedicenti cittadini preoccupati per la presunta “invasione” di stranieri. Si tratta, evidentemente, di claque costituite ad arte ma – si sa – in tv tutto è buono pur di (ri)sollevare gli indici di ascolto.Peccato che il cinico gioco dell’audience si faccia sulla pelle dei migranti, costretti loro malgrado a essere bersaglio non soltanto della distorta attenzione dei media ma anche delle polemiche degli intolleranti, spesso alimentate soltanto dall’ignoranza e dalla tendenza alle generalizzazioni populiste che fanno comodo a qualche politico più estremista degli altri, ma che sono ben lontane dalla verità.Il piccolo schermo finisce per amplificare a dismisura la forza polemica e gli eccessi verbali dei protagonisti – più o meno sempre gli stessi – di un dibattito che andrebbe invece affrontato con ben altro approccio informativo e, soprattutto, senza pregiudizi. A partire dalle immagini con cui vengono mostrati gli sfortunati protagonisti delle tragiche odissee di massa a cui puntualmente assistiamo.Lo sguardo delle telecamere su queste persone è generico e ripetitivo, connota la loro quantità più che la loro identità, le rende ai nostri occhi tutte tragicamente uguali nella loro disperazione. Ad attirare l’attenzione dei cameraman sono generalmente le situazioni più critiche, si tratti di una massa di gente che cerca di attraversare un confine o del gruppo di superstiti dell’ennesimo naufragio di un’imbarcazione stracarica di migranti.Dato che l’immagine “parla da sé”, spesso i giornalisti si risparmiano la fatica di approfondire gli eventi per dare informazioni migliori, nonostante la deontologia professionale specificata nella Carta di Roma (“Protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti”) in vigore dal 2008 imponga agli operatori dell’informazione l’obbligo di “evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte”, in quanto “comportamenti superficiali e non corretti possono suscitare allarmi ingiustificati”.Sempre in cerca di storie, i giornalisti televisivi quando possono cercano di intervistare i malcapitati in fuga. Sul piano specifico delle immagini, bisognerebbe “tutelare i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta e i migranti che scelgono di parlare con i giornalisti, adottando quelle accortezze in merito all’identità e all’immagine che non consentano l’identificazione della persona, onde evitare di esporla a ritorsioni”.Se da un lato l’esposizione mediatica può aiutare lo spettatore ad aprire gli occhi sulle drammatiche situazioni in molte parti del mondo, di cui le migrazioni sono una conseguenza, dall’altro il rischio della speculazione sulla tragedia e della spettacolarizzazione del dolore altrui è sempre dietro l’angolo. Anche questo è, in qualche modo, uno sgambetto.