Cultura
Grande Guerra: la vita quotidiana nei campi di prigionia
Il volume di Giuseppe Ferraro fa luce su alcuni aspetti delle condizioni dei soldati
La I Guerra mondiale, con il suo carico di tragedie, rappresentò uno spartiacque tra due epoche e fu l’evento che di fatto “inaugurò” il Novecento; quello che lo storico Hobsbawm chiamò, secondo una fortunata definizione, il “secolo breve”. Le grandi battaglie, i grandi nomi dei protagonisti, le distruzioni e le vittorie, però, fanno spesso passare in secondo piano gli aspetti legati alla “quotidianità” della guerra, al vissuto, cioè, di quei milioni di soldati e di civili che videro la propria esistenza sconvolta dal conflitto e dalle sue conseguenze. Poco si conosce, ad esempio, dei campi di prigionia nei quali molti soldati di fronti opposti vennero internati durante gli anni della guerra, un’esperienza che segnò numerosi soldati a causa delle condizioni di vita già dure a causa dal conflitto e rese ancor più precarie dalla condizione di prigionia. Nel volume “Il Gazzettino di Wonbaraccopoli e L’Attesa. Due esperienze giornalistiche nei campi di prigionia della Grande guerra” (Pubblisfera Edizioni, 2020) Giuseppe Ferraro, storico e membro del direttivo dell’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea, getta luce su alcuni particolari grazie all’analisi di una documentazione inusuale ma ricca di informazioni: i giornali di prigionia. Molti italiani caduti prigionieri degli austriaci finirono in campi appositamente organizzati in cui i soldati italiani potevano però condurre una vita relativamente dignitosa e dove nacquero esperienze di un certo interesse. Ferraro, in particolare, analizza due giornali pubblicati tra 1916 e 1918 nel campo di prigionia austro-ungarico di Dunaszerdahely, allora in Ungheria: “Il Gazzettino di Wonbaraccopoli” e “L’Attesa”. Si trattava di testate che, seppur legate alla vita di un preciso campo di prigionia, sono esemplari di un genere molto diffuso in quegli anni e che costituisce oggi una fonte di notizie di particolare rilievo e che sta riscontrando sempre più l’attenzione degli studiosi. Censura e controlli erano all’ordine del giorno e non dovette essere facile per i soldati prigionieri mettere in campo tutte le attività necessarie alla redazione di un giornale, nonostante ciò riuscirono in più casi a lasciare, grazie a questi fogli, testimonianze dirette della guerra vista “dall’interno”. Soldati, quasi tutti non giornalisti ma spesso con un alto grado di istruzione, che raccontavano la guerra vissuta in prima persona, nelle trincee prima e nei campi di prigionia poi, fornendo una narrazione che inglobava questioni di guerra e argomenti culturali ma anche cronaca quotidiana della vita nel campo.Il ritrovamento dei numeri delle due testate è stato possibile perché un ufficiale calabrese, Bernardo Barberio, dopo aver combattuto sul fronte e aver passato diversi mesi in prigionia, conservò le annate dei giornali ai quali aveva contribuito, sia come redattore che per un periodo come direttore, e così fecero i suoi eredi custodendoli insieme ad altro materiale nell’archivio di famiglia. Ma “i documenti custoditi nell’archivio vanno ben oltre le vicende personali di Barberio – scrive Ferraro – e permettono, ad esempio, di dare un nome a circa 700 soldati transitati da Dunaszerdahely tra il 1916 e il 1918 e di conoscere le condizioni di vita e le attività che si svolgevano in questo campo di prigionia”.