Uscite didattiche senza smartphone

Per esempio, un istituto didattico potrebbe programmare, per un anno intero, uscite didattiche “no-tech”, dove tutti lasciano a casa lo smartphone, così da vivere il tempo con gli altri, portando a casa ricordi, sensazioni ed emozioni da rielaborare soprattutto insieme, senza fare foto e senza social network o internet. Insomma: disconnessi dalla rete, ma connessi alla vita si può e, direi, talvolta si deve. Per prepararci al futuro.

Nelle case lasciate vuote dai genitori-lavoratori, i nostri figli stanno diventando multitasker: mentre leggono o studiano, accendono la radio o la Tv, aprono Facebook, interagiscono nei gruppi di Whatsapp, mandano un foto su Snapchat, vedono un video su YouTube. Come conseguenza, gli insegnanti elementari segnalano che perfino i processi cognitivi dei bambini stanno cambiando rapidamente: ad ogni ciclo quinquennale, notano che si abbassa la capacità di concentrazione e si alza la soglia dell’attenzione. Gli insegnanti devono perciò inventare metodi sempre più attraenti per periodi sempre più brevi, rischiando, ormai concretamente, di dare stimoli e spunti che non riconducono il sapere ad unità, rendendolo inservibile per la vita. Fino a quando durerà questa rincorsa tra bambini sovraeccitati dalle novità massmediali ed i loro insegnanti che devono far loro imparare a leggere, scrivere e far di conto? Probabilmente ancora un paio di cicli didattici, finché cioè non sarà massificato l’ultimo passaggio della rivoluzione mass-mediale: la realtà virtuale. La strada è tracciata: nel 2014 Facebook ha acquistato per 2 miliardi di dollari Oculus Rift, uno schermo da indossare sul viso per la realtà virtuale e c’è da credere che, superate alcune problematiche tecniche e commerciali, arriverà migliorato e in massa nelle case, dove non ci chiederemo più se sia giusto o meno comprare ai nostri figli la Wii, ma la “realtà virtuale”, costruita da soggetti anonimi dall’altra parte dell’Oceano. Circa 5 anni fa, Lynn Clark, direttrice dell’Estlow International Center for Journalism and New Media dell’Università di Denver (Usa), già avvertiva: “Grazie ai videogiochi, il sapere dei bambini si nutre di simboli, sfide e modelli sempre diversi di narrazione”. E aggiungeva: “Addio quindi al vecchio sapere lineare fondato sulla parola scritta e sulla trasmissione di conoscenza maestro-alunno: imparare oggi ha la forma di un suk arabo nell’ora di punta”. Se questa è la direzione, occorre prepararci con un atteggiamento attivamente sereno e non passivamente tranquillo. Come sempre, occorre prevenire, preparando fin d’ora genitori, insegnanti ed educatori a vivere con i figli la realtà vera e concreta, che, pur imperfetta, drammatica e problematica, tuttavia è bella così com’è, dove si incontra l’altro nella sua verità più fisica, lo si sostiene e lo si aiuta nei suoi bisogni quotidiani e carnalmente più umani. Per esempio, un istituto didattico potrebbe programmare, per un anno intero, uscite didattiche “no-tech”, dove tutti lasciano a casa lo smartphone, così da vivere il tempo con gli altri, portando a casa ricordi, sensazioni ed emozioni da rielaborare soprattutto insieme, senza fare foto e senza social network o internet. Sembra poco, ma è un passo enorme verso la vita vissuta e, per questo, irripetibilmente vera e soddisfacente. Insomma: disconnessi dalla rete, ma connessi alla vita si può e, direi, talvolta si deve. Per prepararci al futuro.

*direttore Hope