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Vivere la missione in Pakistan
Il focolarino Andrea Giordano ha affrontato l’emergenza Covid nel Sud-Est asiatico
«Chi ha un lavoro giornaliero è stato maggiormente colpito dall’emergenza sanitaria. Si parla di persone che stanno in strada con la pala, il trapano o il pennello in mano, oppure i proprietari di negozi nei bazar o chi si occupa delle pulizie per le strade o nelle case. Quando la nostra comunità ci ha inviato un contributo di cinquemila Euro dall’Italia, siamo andati a comprare viveri come farina e riso e li abbiamo impacchettati per distribuirli a circa cinquanta famiglie». Andrea Giordano, genovese di nascita, ma calabrese di origine, era in Pakistan come missionario laico fidei donum del Movimento dei Focolari per conto dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano. Il giovane insegnante in missione con una particolare convenzione sostenuta dall’otto per mille destinato alla Chiesa Cattolica. Il Covid-19 ha ridisegnato i confini del mondo per come lo immaginiamo. «Nei mesi pre-pandemia – racconta – mi occupavo principalmente di attività di evangelizzazione per i giovani e per le comunità. Ci si incontrava, si stava insieme e si leggeva il Vangelo: in questo modo si portava avanti l’opera di formazione catechistica e si educavano le persone alla spiritualità dell’unità e del focolare». E prosegue: «Con le famiglie, inoltre, si era avviato un progetto di aiuto a gruppi di indù che si erano convertiti al Cristianesimo e che vivevano in campagna». Un sistema di supporto chiaramente messo in crisi da una imprevedibile variabile impazzita. «Quando è arrivato il coronavirus – spiega Andrea – si è subito deciso di chiudere le scuole. Io insegnavo italiano in un college, quindi ho avuto la possibilità di proseguire le lezioni grazie al supporto di piattaforme online. Anzi, forse ho lavorato ben più del normale. Un collega che, invece, lavorava nelle scuole medie e nelle scuole superiori, ha avuto difficoltà nell’attivazione della didattica a distanza. In una situazione così delicata, ci si è dovuto ingegnare per produrre materiali che non erano già pronti». E continua: «In Pakistan il lockdown è stato più blando che in Italia, perché le persone non avevano l’obbligo di rimanere in casa. Però sia i negozi di vestiario che le fabbriche essenziali sono state chiuse e i trasporti pubblici sono stati interrotti. Il 14 marzo la mia comunità ha celebrato l’ultima messa, stando attenti a mantenere il distanziamento fisico. Io sono stato fortunato: abitando di fronte alla parrocchia, il mio sacerdote ha detto la messa ogni giorno per me e per le altre tre persone con cui vivevo. Tra i membri della nostra comunità non c’erano casi di indigenza, perché tanti di noi sono insegnanti o infermieri. Tuttavia, la sanità non è pubblica: chi ha bisogno di andare in ospedale deve pagare il servizio. In Pakistan non esiste la cultura del risparmio, per questo è facile trovarsi in difficoltà economiche». Nonostante il dramma sanitario, comunque, il Pakistan sembra aver gestito con sapienza l’emergenza coronavirus. «La mia impressione – dice Andrea – è che, a differenza di quanto avvenuto in India, qui l’epidemia non è mai esplosa e il numero di casi giornalieri è sempre rimasto contenuto. Per più settimane non abbiamo ricevuto notizia di contagi tra i nostri conoscenti. Poi, purtroppo, una suorina ha contratto il virus ed è venuta a mancare. Era la responsabile di una struttura per bambini con problemi psicofisici, nati da matrimoni da consanguinei». Un miracolo, nonostante, nel Paese, le misure di sicurezza non vengano propriamente rispettate. Continua il missionario: «Le persone in strada sono tranquille: si danno la mano e si abbracciano. Una grossa fetta di popolazione è analfabeta: neanche bada a mantenere la distanza fisica». Attenzione al virus che, al contrario, Andrea ha riscontrato in Italia. «Sono tornato a Mendicino ad agosto e ho notato che la maggior parte della popolazione sa come comportarsi. Come italiani abbiamo dimostrato una capacità di affrontare la pandemia maggiore di quella che molte volte ci immaginiamo. In questo momento i nostri contagi risalgono, ma non come quelli di Francia e Spagna», spiega orgoglioso e stupito. Non è detto, però, che il futuro di Andrea sia nel nostro Paese. Ripensando alla scelta di andare in Pakistan, emerge una travolgente voglia di continuare la sua opera di missione. «Ho vissuto a Udine per sedici anni: sentivo di non avere più niente da dire in comunità. Era il tempo di partire e i miei superiori mi hanno proposto di trasferirmi in questa terra speciale», racconta. E conclude: «Vivere in Pakistan è una sfida in cui immergersi. Vorrei tornare lì».