Marche sconvolte dall’omicidio di Emmanuel. Ma qui il razzismo non ha diritto di cittadinanza

Oltre al cuore impietrito dall'orrore e al profondo disagio di fronte ad un lutto che non rende affatto onore ai marchigiani, adesso lo sguardo deve farsi cristiano, verso chi è vittima e verso chi ha avuto mano assassina. Oltre ogni etichettatura discriminatoria e un astio contagioso, prevalga piuttosto la volontà rispondere con la preghiera silenziosa, la solidarietà autentica, il rispetto concreto.

Emanuele in italiano, lo sappiamo, vuol dire “Dio è con noi” e oggi questa traduzione suona stridula, mentre Chimiary, straziata, quello stesso Dio lo invoca, domandando in nigeriano “dove sei?”, mentre canta alla veglia di preghiera organizzata in memoria del marito, morto ammazzato in un fazzoletto d’Italia che da sempre vanta un clima salubre e pacifico, nella terra e nei cuori.

Quel che è accaduto a Fermo, nelle Marche, in un caldo pomeriggio di luglio lascia interdetti, eppure chiudere gli occhi non si può.

E, più che spiegare, occorre difendere certi valori che rispondono ai nomi di tolleranza e civiltà e che a questa regione, da sempre, appartengono. I fatti sono ormai, tristemente, noti. “Scimmia africana” è il vergognoso binomio con cui, martedì 5 luglio, l’ultrà fermano di estrema destra Amedeo Mancini, trentottenne imprenditore agricolo, già noto alle forze dell’ordine in quanto sottoposto a Daspo, aggredisce prima verbalmente e poi fisicamente, in pieno centro storico, Chimiary, la giovane compagna di Emmanuel Chidi Namdi. Una coppia richiedente asilo, la loro, sfuggita in Nigeria alla furia di Boko Haram, con in mano un sogno: essere una famiglia, superando le difficoltà dell’integrazione, un viaggio da profughi e quel dolore atroce di perdere il figlio che lei aveva in grembo proprio durante la traversata. Nelle amene colline marchigiane Emmanuel e la sua compagna erano stati accolti lo scorso novembre dalla Fondazione Caritas in veritate, guidata da don Vinicio Albanesi.

L’insulto di Amedeo non cade nel vuoto. Il nigeriano reagisce, ne nasce una feroce colluttazione. Una lite concitata, che porta alla morte di Chidi Namdi che, colpito dal tifoso, cade a terra in coma irreversibile. La procura fermana indaga: anche grazie alla presenza di testimoni, scatta la ricostruzione della vicenda, ma le versioni sono contrastanti. E inizia il tam tam mediatico, nel perverso, poco virtuoso circuito dei social network in cui scatenarsi, mentre nel Web scorrono le foto degli sposi felici, di Emmanuel e Chimiary che si stringevano, legati da un amore che prometteva serenità. Ora il trentaseienne africano è morto e Mancini accusato di omicidio preterintenzionale con l’aggravante del razzismo. Un termine che sconquassa la tranquilla esistenza di provincia e gela il sangue in questa estate già insanguinata dal terrore internazionale. “Il Governo oggi a Fermo con don Vinicio e le Istituzioni locali in memoria di Emmanuel. Contro l’odio, il razzismo e la violenza” twitta il presidente del Consiglio Matteo Renzi mentre a Fermo arriva il ministro dell’Interno Angelino Alfano. La domanda brucia, e interpella, prima di tutto, la gente di questo territorio, culla di santi e artisti, cresciuta nel segno dell’ospitalità, del lavoro onesto, e dello sport, da insegnare ai ragazzi nei campetti dell’oratorio. Perché, oggi, associare il mondo calcistico a quello della criminalità e dell’appartenenza politica attraverso il comun denominatore della ferocia sarebbe facilissimo. Ma generalizzare adesso significherebbe aggiungere sgomento a sgomento, fomentando ancor di più sentimenti pericolosi e fuorvianti. In Africa i due migranti avevano perso tutti i familiari in uno degli attacchi alle chiese cristiane, e nel nostro Paese cercavano un futuro migliore, trovando un approdo sicuro nella realtà guidata da don Albanesi, che a gennaio li aveva uniti in matrimonio, informalmente per mancanza di documenti.

Nella Caritas in veritate sono 124 i profughi accolti, e questo tragico episodio non ha precedenti in una realtà locale dove gli stranieri sono numerosi, integrati e dove i richiedenti asilo vengono chiamati a raccontare le loro storie nelle scuole, tra gli scout. Oltre al cuore impietrito dall’orrore e al profondo disagio di fronte ad un lutto che non rende affatto onore ai marchigiani, adesso lo sguardo deve farsi cristiano, verso chi è vittima e verso chi ha avuto mano assassina. Oltre ogni etichettatura discriminatoria e un astio contagioso, prevalga piuttosto la volontà di ùrispondere con la preghiera silenziosa, la solidarietà autentica, il rispetto concreto. Quel rispetto di cui Emmanuel è stato privato assieme alla vita, in quella che poteva essere la sua nuova casa, qui dove il razzismo non ha diritto di cittadinanza. Se da questa impietosa lezione avremo imparato ciascuno qualcosa, prima di tutto da esseri umani, allora forse sì che questa storia assurda avrà trovato un senso.