Profughi siriani e iracheni come i palestinesi: faranno mai ritorno nei loro Paesi?

Profughi siriani e iracheni di oggi come quelli palestinesi nati sull’onda delle guerre arabo-israeliane? Siamo all’inizio di una nuova questione palestinese in salsa “sirachena”? Davanti alle emergenze umanitarie di milioni di profughi e rifugiati, provocate dalle guerre in corso in Siria e Iraq, è sempre più difficile parlare di integrità territoriali come di chiari confini umani e geografici. Con gravi problemi di sicurezza e stabilità, ben sapendo che così tanti rifugiati, costretti a vivere in condizioni disperate rappresentano un potenziale bacino di reclutamento per le organizzazioni terroristiche. Siriani e iracheni profughi e rifugiati, come i palestinesi: faranno mai ritorno nelle proprie terre?   "Serve una pace regionale che garantisca un ritorno progressivo delle popolazioni nei loro territori evitando l’insediamento permanente, in condizioni ai limiti della sopportazione, nelle terre dove hanno trovato rifugio", sostiene Paolo Maggiolini dell'Ispi.

Profughi siriani e iracheni di oggi come quelli palestinesi nati sull’onda delle guerre arabo-israeliane?  Siamo all’inizio di una nuova questione palestinese in salsa “sirachena”? A guardare i numeri sembrerebbe proprio di sì, se pur con tutti i distinguo del caso. La guerra in Siria e Iraq, il perdurante conflitto israelo-palestinese, continuano a essere al centro delle preoccupazioni della Comunità internazionale per la gravità delle conseguenze prodotte sul terreno. Una di queste è l’emergenza profughi e sfollati in Giordania, Libano e Turchia in primis, che sta mettendo in crisi anche i confini geografici, sempre più labili e porosi, dei Paesi in questione stravolgendone di fatto anche le identità nazionali e ponendo serie questioni di sicurezza interna. È noto che la moltitudine di rifugiati, costretti a vivere in condizioni disperate rappresentano un potenziale bacino di reclutamento per le organizzazioni terroristiche.

Siriani e iracheni, nuovi palestinesi. Secondo i dati disponibili, e riportati nel corso di una recente riunione del Pontificio Consiglio Cor Unum,  dal 2011 il conflitto in Siria avrebbe provocato finora circa 400 mila vittime e 2 milioni di feriti.Attualmente sono più di 12 milioni le persone bisognose di aiuto in Siria e oltre 8 milioni in Iraq;i rifugiati interni sono più di 6 milioni in Siria e più di 3 milioni in Iraq, mentre almeno 4 milioni sono i rifugiati siriani in tutta l’area del Medio Oriente: in particolare, 1,9 milioni in Turchia, 1,1 milione in Libano, più di 600mila in Giordania.Pezzi di popolo senza patria così come lo sono i 600mila palestinesi accolti in questi decenni in Siria,  i 550mila in Libano, i 2,2 milioni ospiti della Giordania, oltre ai 942mila registrati in Cisgiordania e al milione e 350mila della Striscia di Gaza.I dati Onu non tengono conto di tutti i palestinesi residenti nei Territori (dunque non registrati come rifugiati) e di quelli che negli anni passati sono emigrati in diversi Paesi del mondo, in particolare in Sud America. Una crisi ormai “datata” quella palestinese, per anni uno dei cavalli di battaglia dei movimenti radicalisti islamici, ora abbandonata a favore di una più efficace – almeno sul piano mediatico – jihad globale.

Quale destino? “Accostare il dossier siriano e iracheno a quello palestinese – spiega al Sir Paolo Maggiolini, esperto dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) – può essere un’immagine efficace solo se contestualizzata e spiegata con attenzione.La questione palestinese vive di elementi propri e la vicenda dei rifugiati non può essere affrontata senza entrare nel merito del futuro di uno Stato palestinese e della prospettiva israeliana. Di contro la questione siriana e irachena resta ancora aperta pur nella sua complessità geopolitica. L’analogia, indubbiamente, ci aiuta a focalizzare l’attenzione sul destino che potrebbe attendere queste masse di persone fuoriuscite dai loro territori storici. Un tempo i palestinesi, costretti a lasciare la loro terra dai conflitti arabo-israeliani, e ancora oggi privi di uno Stato, oggi i siriani e gli iracheni. Il tempo passa e il rischio che si corre è che questa situazione permanga tale anche per questi ultimi. Fondamentale – sottolinea l’esperto -sarà ricostruire la fiducia nei profughi affinché tornino a una vita piena, anche perché la loro propensione a pensare al futuro nello Stato di provenienza oggi è molto debole. Ciò vale soprattutto per le minoranze etniche e religiose”. Altro aspetto da tenere in considerazione è che “ogni enorme flusso di rifugiati porta con sé parte della storia del loro paese di provenienza. Significa – afferma Maggiolini – chelo spostamento di grandi masse di persone influenza i confini umani e geografici degli Stati ospitanti, rendendoli labili, andando a pesare sulla loro identità e integrità territoriale”.Maggiormente ora davanti la minaccia del califfo Al Baghdadi.

Ricostruire fiducia. Fondamentale sarà allora “ricostruire gli Stati e la fiducia della popolazione nel territorio, combattendo tutti quegli attori non statuali come Daesh che ne esercitano il controllo”. In questo caso, afferma Maggiolini, “bisogna capire quale sarà l’epilogo delle guerre in atto e far sì che questo non richieda ancora troppo tempo e un costo in vite umane ulteriormente pesante. Capire se Baghdad sarà in grado di debellare le minacce interne e se Damasco riuscirà a rientrare nei suoi territori e dare le giuste garanzie di sicurezza e stabilità alle popolazioni fuoriuscite. Il numero degli sfollati interni e dei rifugiati di Siria e Iraq è enorme come considerevole è quello di chi, come la minoranza cristiana, ha abbandonato definitivamente la propria terra per rifarsi una vita altrove”. “Ricostruire quella tradizione di convivenza che era un tratto distintivo della Siria – ammette l’esperto – sarà molto complicato soprattutto se si è costretti a vivere per anni in un Paese dove hai trovato rifugio. Ed è quello che sta accadendo in Libano, in Giordania, in Turchia, dove vive la maggior parte dei profughi siriani e iracheni. L’unica soluzione – conclude – è quella di una pace regionale, duratura e sostenibile. Una pace militare non è sufficiente. Serve una pace che garantisca un ritorno progressivo delle popolazioni nei loro territori evitando l’insediamento permanente in condizioni ai limiti della sopportazione nelle terre dove hanno trovato rifugio”. La questione palestinese in questo caso può servire da insegnamento.