Attualità
La riforma del lavoro merita la sufficienza. E sguardo più lungo
Alessandra Sartori insegna diritto del lavoro all'Università Cattolica: "Ci sarà un discreto numero di assunzioni, anche grazie a 'Garanzia Giovani', che è una riforma recente, criticata da destra a manca, ma con potenzialità da far emergere". E ancora: "Importante l'Agenzia unica del lavoro che dovrebbe essere il vero motore che coordina il Jobs Act e le politiche attive previste dal Governo"
Col Jobs Act che sta muovendo i suoi passi iniziali, tra decreti varati e altri in via di approvazione, molti si chiedono se finalmente il nostro Paese abbia imboccato la strada giusta per avere un mercato del lavoro moderno, flessibile, attento alle esigenze delle aziende e insieme a quelle dei lavoratori. Soprattutto ci si domanda se questa nuova legislazione del lavoro consentirà finalmente di avviare le assunzioni di giovani. Ecco le valutazioni di una specialista di diritto del lavoro, la professoressa Alessandra Sartori, che insegna nella facoltà di Scienze politiche e sociali della Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano. Calo dell’euro, crollo del petrolio, tassi di interesse bassissimi, Quantitative Easing della Bce, e – in aggiunta per l’Italia – il Jobs Act. Stiamo entrando nel migliore dei mondi possibili per il rilancio del lavoro? “Sicuramente, all’interno delle misure economiche, politiche e legislative di questi ultimi tempi, in particolare il Jobs Act dovrebbe sulla carta rilanciare l’occupazione. Anche se non è da tutti condiviso, ci sono le premesse per aumentare la flessibilità con meno costi, vincoli e rigidità per le imprese. Per questo la legge di stabilità 2015 ha messo in campo molte risorse per incentivi e sgravi contributivi alle assunzioni a tempo indeterminato. Detto questo, ci vorrà del tempo per vedere realmente dispiegati i suoi effetti e non ci si può aspettare un boom occupazionale nel brevissimo periodo, seppure è prevedibile un aumento di assunzioni”. Quali aspetti del Jobs Act le sembrano centrati e quali più problematici? “Sia la fase 1 del Jobs Act, cioè il decreto Poletti dello scorso anno, sia la fase 2 con le nuove deleghe appena varate, l’insieme delle nuove norme affronta in maniera organica problemi affastellati nel corso di decenni. Basti pensare alla flessibilità in assunzione e a quella sulla mobilità interna per utilizzare i lavoratori: si tratta di passi avanti. Inoltre anche le tutele sono state rese più forti e generose: per la disoccupazione, ad esempio, dove ora si arriva fino a 24 mesi. Il tutto si collega alla riforma dei servizi per l’impiego, con l’ipotesi di una Agenzia che è tutta da configurare. Il fatto che si possa essere licenziati ma che esista una rete di misure economiche e di tutele per il reinserimento appare una prospettiva moderna e positiva”. Ma le voci critiche rimangono, anzi si accentuano, e c’è chi vuole fondare nuovi “partiti” per demolire il Jobs Act. Che ne dice? “I critici sottolineano la diminuzione di tutele nel rapporto, il famoso art. 18! Per cui ormai la reintegrazione rimane per pochi limitatissimi casi per i nuovi assunti. C’è poi la critica di chi non gradisce il contratto a termine introdotto col decreto Poletti del marzo scorso, rinnovabile in tre anni fino a 5 volte senza addurre ragioni giustificative. Più che una critica io qui ci vedo quasi una contraddizione con il contratto a tutele crescenti: da un lato si vuole incrementare il lavoro a tempo indeterminato, dall’altro si offre, sia pure per il 20% massimo dei dipendenti, il lavoro a termine. Le aziende hanno obiettivamente due strumenti in mano, e possono scegliere secondo le loro esigenze e possibilità”. Lei teme forse degli abusi? “Questo non so e non lo auspico, naturalmente. Ma potrebbe succedere che all’inizio ci sia una corsa ad assumere ‘a tutele crescenti’ per via delle somme stanziate a copertura dei contributi. Ma quando i soldi stanziati finiranno, potrebbe succedere che le aziende si orientino sui contratti a termine. È una ipotesi logica, da verificare”. Guardando alla legislazione del lavoro in campo internazionale, reputa che le attese ottimistiche in Italia siano giustificate? “Le riforme, quando ben studiate, hanno impatti molto forti. Ad esempio, in Germania ci sono voluti alcuni anni, almeno 4 o 5, prima di vedere gli effetti, che poi sono stati molto positivi. Nel 2005-2006 si parlava di Germania come del ‘malato d’Europa’, oggi invece è il paese leader. Quello che ci insegnano gli altri Paesi è che le riforme vanno ponderate e studiate prima di essere implementate. La nostra del Jobs Act sulla carta può funzionare, ma a mio avviso non c’è stata una analisi previa approfondita. In Italia manca una mentalità valutativa. Se non c’è stata a priori, almeno dovremo dare tempo alla riforma e farla a posteriori, e semmai decidere di cambiare le parti che non vanno”. Da qui a un anno cosa si immagina? “Penso che ci sarà un discreto numero di assunzioni, anche grazie a ‘Garanzia Giovani’, che è una riforma recente, criticata da destra a manca, ma con delle potenzialità da far emergere. Ci sono esperienza regionali di punta da diffondere. Inoltre è pensabile che tra i contratti a termine, molto flessibili e senza giustificazioni, e quelli a ‘tutele crescenti’, con i vantaggi che si portano dietro, gli strumenti per assumere oggi ci sono”. Da 1 a 10, che voto darebbe al Jobs Act e alle altre riforme connesse? “Sarei portata a rispondere ‘sufficiente’, perché ci sono indubbi elementi positivi insieme ad alcune incongruenze. La riforma va valutata nel suo insieme e una volta conclusa, e quindi ora è presto per un giudizio. Ritengo importante inoltre attendere, come dicevo, l’arrivo dell’Agenzia unica del lavoro che dovrebbe essere il vero ‘motore’ che coordina il Jobs Act e le politiche attive previste dal Governo. Come poi sarà articolata, vedremo. Ultima cosa: è bene non essere categorici nel giudizio. Le riforme si fanno, si sperimentano per qualche tempo e poi si possono anche integrare, senza stravolgerle e tornare ogni volta daccapo”.