Editoriali
Gli sci appoggiati alla croce
I sei morti del Monte Nevoso e la passione per l'alta quota.
I commenti sulle tragedie provocate dalle valanghe cadono non propriamente come fiocchi di neve e dividono l’opinione pubblica nel giudizio sulle avventure che attraversano il ghiaccio e si arrampicano sulle rocce. Sta accadendo anche per i quindici scialpinisti che a quota 3.000 metri stavano raggiungendo la vetta del Monte Nevoso in Valle Aurina. Sei di loro sono morti. Avevano avuto, a quanto risulta, il “via libera”. Erano, compreso il ragazzo di sedici anni, uomini della montagna. Non sembra quindi che si fossero avventurati con disinvoltura lungo il difficile e rischioso pendio. È altrettanto vero che, pur essendo impossibile un controllo certo delle condizioni di stabilità della neve, un supplemento di prudenza è sempre doveroso. Eppure anche questo non basta. La montagna attrae come una calamita, lancia la sfida a conquistare la vetta, nasconde i pericoli. Il fascino della neve, del vento, del cielo, del silenzio è tuttavia straordinariamente coinvolgente. Soprattutto in un mondo dove troppo spesso dominano il grigio, la piattezza, il rumore.“Queste montagne – parole di Giovanni Paolo II in occasione delle vacanze in Cadore – suscitano nel cuore il senso dell’infinito, con il desiderio di sollevare la mente verso ciò che è sublime”. Al dire del Papa si affianca quello di un leggendario alpinista, Walter Bonatti: “La montagna ha il valore dell’uomo che vi si misura, altrimenti, di per se stessa non sarebbe che un grosso mucchio di pietre”.Non è detto che questi siano i pensieri di quanti salgono in cima, è impossibile saperlo. È però possibile scoprire qualche traccia, leggendo le cronache della tragedia in Alto Adige: basta guardare in una pagina Facebook la foto di una delle vittime ritratta in vetta accanto a una croce alla quale aveva appoggiato gli sci. Nel gesto, apparentemente scontato, c’è una traccia di quel pensiero. Non a caso la croce è quasi sempre sulla cima delle montagne. Chi l’ha piantata, dopo la fatica di un’arrampicata, ha voluto lasciare un segno che indicasse una meta oltre la vetta. Nessuno ha mai divelto una croce posta al limite del monte. E anche questo è un segno che si può guardare frettolosamente oppure si può incastonare nella storia e nella vita dell’uomo. La montagna, ritenendola un umile richiamo all’infinito, tiene stretta a sé la croce: non sempre ciò accade nell’uomo. Forse questi sono pensieri estranei alla tragedia che si è appena compiuta ma entrano con il loro silenzio nelle riflessioni ai bordi della cronaca. E tra queste riflessioni ce ne è una che nasce da un’immagine di Walter Bonatti. “Quelle rocce – scrive il leggendario alpinista – innalzantisi in forma di mirabile architettura, quei canaloni ghiacciai salienti incontro al cielo, quel cielo ora azzurro profondo dove l’anima sembra dissolversi e fondersi con l’infinito, ora solcato da nuvole tempestose che pesano sullo spirito come una cappa di piombo, sempre lo stesso ma mutevolmente vario, suscitano in noi delle sensazioni che non si dimenticano più”.Ricordare con queste parole le sei vittime della Valle Aurina può aiutare a non fermarsi ai commenti sulla loro decisione di raggiungere la vetta e può far salire in quota il pensiero. Salire per cogliere il significato della scelta di chi ha dentro di sé il desiderio di arrivare in vetta per ascoltare, dopo aver appoggiati gli sci a una croce, il Silenzio. Un desiderio, il più delle volte non detto, di chi legge la montagna come una metafora della vita.