Editoriali
Il rischio del silenzio
Dopo le tragedie di Parigi e Bruxelles cosa cambierà nelle “banlieue”?
Dopo le tragedie di Parigi e Bruxelles non è ancora dato di sapere se, oltre alle misure di sicurezza, hanno preso o stanno prendendo forma e consistenza altri pensieri e progetti sui luoghi, le “banlieue”, dove tanta malvagità si era annidata. Le immagini televisive hanno più volte mostrato questi scorci di città riproponendo la visione di ghetti, di diversità culturali e sociali abbandonate a se stesse e dominate dalle leggi del più forte o del “senza volto”.Non sono mancate le analisi, spesso abbondanti. Superfluo quindi riproporle Poi il silenzio. I media si sono dedicati quasi esclusivamente ai racconti della ricerca e della cattura di terroristi e loro fiancheggiatori. Nulla da eccepire ma si può considerare chiuso il capitolo di quelle periferie urbane? Non sarebbe opportuno prendere a riferimento quelle buone prassi che in altre città europee hanno impedito o ridotto il rischio del formarsi dei ghetti? Le buone prassi a cui è possibile accennare sono quelle fondate sulla capacità e sulla volontà di tessere relazioni tra persone diverse. Nel ribadire l’importanza e l’urgenza di questa tessitura non si trascura il ruolo della cultura urbanistica che chiama in causa la responsabilità di chi governa la città ma questo è un capitolo che merita una particolare attenzione. Parlare di buone prassi potrebbe sembrare un esercizio di utopia ma potrebbe al contrario incoraggiare una riflessione a partire dalla presenza cristiana nelle periferie urbane. Qual è il contributo che in situazioni sociali difficili e complesse hanno saputo offrire e offrono le fragili e piccole comunità parrocchiali poste sulla cintura dei grandi centri? Bisognerebbe passare in rassegna e leggere queste presenze in città come Roma, Napoli, Palermo, Milano per conoscere una realtà spesso taciuta non solo dai media. Si potrebbe prendere atto con stupore di un’opera che si è mossa nel segno dell’ascolto, dell’accoglienza, della condivisione, della giustizia. Le tracce, piccole e grandi, sono numerose Si potrebbe, ad esempio, ripercorrere le visite di Paolo VI alle parrocchie romane, si potrebbe rileggere il suo appello alle diocesi italiane perché prendessero a cuore una parrocchia romana, si potrebbe rivedere questa esile figura mentre cammina su un terreno fangoso per entrare all’alba nella chiesa di periferia per celebrare la messa e per dire, come avvenne il 1 marzo 1964 a Casal Bertone: “Si propaghi nel quartiere un’onda di amore cristiano”.L’appello è diventato da allora un impegno per molte comunità cristiane perché le periferie potessero essere riscaldate dal calore umano e non raggelate dall’indifferenza o dalla diffidenza . Non si tratta di fare confronti tra periferie di città europee ma si tratta di riportare il pensiero sul tema delle radici cristiane europee e, in particolare, sugli effetti della loro presenza o della loro assenza nelle stesse periferie. Su questo tema devono ripartire una riflessione, un discernimento e una proposta per stimolare e aiutare l’Europa a non riconsegnare al silenzio le “banlieue” dopo le tragedie vissute ma a trasformarle in luoghi di convivialità delle differenze. Come è vero che questa è una risposta che le Chiese cristiane stanno già offrendo all’Europa è altrettanto vero che oggi urge una risposta più condivisa perché la speranza non muoia, perché la paura non vinca, perché la dignità della persona, alla cui pienezza concorrono sia i diritti che i doveri, sia più efficacemente tutelata. Dopo le tragedie europee di Parigi e di Bruxelles il silenzio non può e non deve scendere sulle “banlieue”.