Attualità
Albania, terra di fraternità dove il povero non è lasciato solo
Viaggio in terra albanese, tra un passato di persecuzione e un presente di convivenza tra religioni e di solidarietà. Una Chiesa povera tra i poveri, popolata di uomini e donne che hanno deciso di spendere la loro vita per i bambini, i poveri, gli ultimi. Dal 2014, l'Albania è ufficialmente candidata per l'adesione all'Unione europea. È oggi un esempio di fraternità e un monito sempre attuale affinché l'Europa non dimentichi mai fino a dove può giungere il male dell’estremismo.
Distese di terra e colline brulle tra una città e l’altra. Si presenta così l’Albania a chi atterra a Tirana e deve inoltrarsi verso l’interno. Quasi uno schiaffo inaspettato visto che le statistiche parlano di “PAESE emergente” e di un turismo in continua crescita. Dal 2014 l’Albania è ufficialmente candidata per l’adesione all’Unione europea. Un traguardo che qui i politici locali e la gente attendono con speranza. Con le sue moschee e le cattedrali ortodosse e cattoliche, le une a fianco alle altre, con le sue città dove il suono delle campane e la preghiera del muezzin si alternano lungo la giornata, l’Albania presenta un modello di convivenza che può fare solo del bene al continente europeo.
Chiesa di martiri. Il segreto di questa amicizia che lega le diverse comunità religiose, si trova nel suo passato. L’Albania ha conosciuto uno dei più feroci regimi comunisti. Durò dal 1944 al 1992 e arrivò addirittura a sancire nel 1976 nella sua Costituzione l’ateismo di Stato. La persecuzione che ne derivò, non guardò in faccia nessuno, sterminò con uccisioni sommarie e torture feroci cattolici, ortodossi e musulmani. Vale la pena andare a Scutari per visitare il Memoriale della persecuzione costruito in una delle 23 prigioni che all’epoca del regime erano disseminate in città. Custodito dalle Sorelle povere di Santa Chiara (le clarisse), narra la sofferenza dei credenti albanesi lungo tutto il periodo comunista. Oggi ristrutturato e ben curato, nel memoriale è possibile rivivere un “olocausto” sconosciuto e raramente letto nei libri di scuola. Le celle numerate dove i prigionieri venivano rinchiusi in 10, anche in 15 e quindi costretti a rimanere in piedi. Gli strumenti di tortura utilizzati dai servizi segreti. Le celle dove avvenivano gli interrogatori. I segni incisi dai prigionieri delle differenti fedi: croci accanto a sure del Corano. Un percorso che ancora oggi si attraversa nell’oscurità e nel silenzio di allora. È il luogo dove persero la vita gran parte dei 38 martiri che sono stati beatificati nel 2016 perché, pur nell’inferno di una persecuzione arbitraria e ingiusta, non hanno mai avuto sulla loro bocca parole di vendetta e risentimento ma sono stati fino alla fine testimoni di perdono e misericordia.
Seme di quella nuova Albania che è chiamata oggi in Europa a essere esempio di fraternità e monito affinché non dimentichi fino a dove può giungere il male dell’estremismo.
L’impegno nel sociale. La Chiesa albanese sente e vive come una missione il dovere di fare “memoria del suo passato” ma “è chiamata oggi continuamente ad essere in prima linea nel sociale, con una presenza capillare nelle emergenze”, ci racconta monsignor Angelo Massafra, arcivescovo di Scutari. Tra le nuove sfide, il continuo arrivo anche qui di migranti “di passaggio” che attraversano i confini con l’obiettivo però di raggiungere altre mete in Europa. Ciononostante l’Albania “continua ad essere Paese di emigrazione”. Il lavoro, o più semplicemente la prospettiva di una vita migliore, spingono le persone, soprattutto i giovani, a lasciare la propria terra. “Il mio grande rammarico – confida il vescovo – è che siamo abbandonati. Non ci aiuta più nessuno e ogni giorno dietro la nostra porta ci sono richieste di aiuti che talvolta non riusciamo a soddisfare. Aiutateci! Soprattutto aiutateci a convincere i nostri adolescenti a non abbandonare l’Albania”. Il vescovo è preoccupato: i ragazzi minori che partono da soli possono facilmente cadere in brutti giri perché rappresentano purtroppo una facile manovalanza della malavita organizzata. E, dice,
“se è vero che si deve essere liberi di partire, deve essere anche garantita una libertà a rimanere”.
I ragazzi e i bambini. Suor Elizabeta Lulaj è una delle cinque suore francescane di Gesù Bambino della comunità di Scutari. La sua è una vita completamente dedicata ai bambini e ai ragazzi, dai 3 ai 14 anni. “Li ho tutti nel cuore”, dice con orgoglio di madre. Tutti i giorni apre le porte del convento proponendo alle famiglie un servizio di Centro diurno dove i ragazzi possono fare i compiti, mangiare “un piatto sano” e soprattutto trovare un luogo sereno dove poter giocare, studiare, soprattutto confrontarsi con qualcuno. Il centro è provvisto di aule con tavoli, librerie, giochi di ogni tipo e i ragazzi divisi per età sono seguiti da volontari. Suor Elizabeta non ne parla volentieri e con estremo pudore racconta di situazioni familiari difficili, purtroppo segnate da alcolismo e violenza. Dove gli uomini hanno perso il lavoro e con il lavoro il senso della vita. Ma guai a parlare con lei di “generazione perduta”. “Io do a questi bambini il mio cuore”, dice.
“Li metto al centro. Li faccio sentire Re e il bambino, quando si sente amato, da tutto”.
Nella comunità francescana di Scutari c’è anche una suora medico che da 25 anni ha aperto un ambulatorio, specializzato in cardiologia pediatrica, grazie al sostegno dell’Associazione Madonnina del Grappa. E poco più in là, ci sono i francescani minori che gestiscono una Mensa, aperta tutti i giorni dalle 12 alle 14, tranne la domenica, per un totale di un centinaio di pasti al giorno ai “poveri”, uomini che hanno perso il lavoro, mamme sole, vedove, anziani.
La terra di Madre Teresa. Ma gli ultimi non sono solo i poveri. In Albania come in tutti i punti della terra, sono i soli. Qui nel paese in cui è nata Madre Teresa, le Suore della Carità hanno aperto a Scutari una casa dove vengono accolti i bambini abbandonati alla nascita per gravi disabilità. Ci rimangono “till they die”, fino alla fine. Attualmente ne sono ospitati 57, tutte femmine, tranne Eraldi, un ragazzo totalmente paralizzato. Disteso su un lettino gli puoi accarezzare solo la testa.
Quello che comunica con gli occhi, è pura felicità.
Nessuna intervista, massima discrezione e riservatezza, dicono quasi scusandosi le suore. Dappertutto è così, rispondo. La casa è accogliente, pulita, colorata, a misura delle diverse abilità che qui vengono accolte. Dalle più aggressive a quelle meno gravi.
C’è festa e dolore. Musica e silenzio. Speranza e ineluttabilità. Amicizia e solitudine. Ci sono le aule dove si balla e si lavora, le camere con i lettini. Ma c’è anche la stanza adibita ad accogliere chi è in preda a una crisi, tutta completamente rivestita di pannelli morbidi per evitare che i ragazzi si facciano male e provvista di diffusore di musica e colori per calmare. In un corridoio, una ragazza è distesa su un tappetino con le braccia legate e un caschetto sulla testa. Passa le giornate così: l’unica preoccupazione è che non si faccia male. Si muove in continuazione. Non ha pace. Che senso ha una vita così, chiedo alle suore che mi accompagnano. Dietro a quella vita, spesa su un tappetino, in un angolo di corridoio, con la testa che batte in continuazione al muro, mi dicono le suore, c’è una vita più grande fatta di tutte le persone che decidono di venire qui e trascorrere con queste ragazze un tempo di donazione. È un tempo ricco, prezioso perché attraversato di conversioni, di persone che ritrovano la speranza, guariscono nell’anima, alcune addirittura scoprono una vocazione. E qui, nella contraddizione tra inutilità e accoglienza, l’unica chiave di lettura possibile non è la logica o l’efficienza e nemmeno l’utilità di un servizio, ma solo l’amore.