«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11)

Le tre letture di quest’ultima domenica di quaresima presentano un cammino di liberazione che si dischiude, ridonando speranza e ricostruendo l’identità perduta. Dio apre una strada nel deserto per un popolo schiacciato dai potenti (I lettura); l’incontro sulla via di Damasco libera Paolo da tutto ciò che non è Cristo (II lettura); la parola di Gesù strappa una donna anonima dalla condanna a morte donandole la possibilità di un futuro libero dal peccato (Vangelo).

L’evangelista descrive una scena a forti tinte: i ‘giusti’, Farisei e Scribi, trascinano davanti a Gesù una donna accusata di adulterio. In realtà, gli imputati sono due: la donna e Gesù. I custodi e maestri della Torah, infatti, sono indifferenti al destino della donna ma la usano come pretesto per mettere alla prova Gesù: «…Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (v. 5).

Gesù non risponde; si china e inizia a scrivere per terra. Molti interpreti si sono chiesti quale significato attribuire al suo gesto e che cosa abbia scritto Gesù. I peccati degli accusatori? Segni indistinti per trattenere l’ira verso coloro che opprimono l’altro in nome di Dio? Oppure voleva soltanto indicare che i peccati dell’uomo non sono incisi nella pietra, come la legge, ma tracciati sulla terra per essere cancellati dalla misericordia? Giovanni non lo svela, ma alla violenza di parole e sguardi omicidi oppone una pausa di silenzio.

Quando costretto dall’insistenza dei leaders religiosi Gesù alza lo sguardo, lo posa sugli accusatori. Sono occhi che penetrano e obbligano ad entrare dentro di sé: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). Gesù non nega il diritto dell’autorità di emanare sentenze, ma critica l’ipocrisia di chi usa la legge come strumento di condanna, di chi interroga ma non si lascia interrogare.

Quando ad uno ad uno tutti si allontanano, rimane soltanto Gesù e la donna, «la misera e la misericordia» (S. Agostino). Lo sguardo di Gesù si posa allora sulla donna. Non vede l’adultera, la peccatrice, la condannata a morte: vede soltanto una donna e le sue infinite possibilità. Il suo sguardo rivela una creatura fragile ma plasmata ad immagine e somiglianza di Dio. Per questo è uno sguardo che apre cammini di speranza: «Donna dove sono? Nessuno ti ha condannata?» (v. 10).

E la donna percepisce uno sguardo diverso da quello indifferente dei leaders religiosi e ostile della folla. È uno sguardo che non condanna ma chiede il coraggio di rischiare, di cambiare, di camminare in novità di vita. «Neanch’io ti condanno» (v. 11): poche parole bastano per cambiare una vita! Gesù non le chiede che cosa ha fatto ma le indica che cosa potrà fare perché il perdono non si limita a liberare il passato; fa molto di più, libera il futuro. La donna non appartiene più al suo peccato ma al suo domani ai semi che potrà seminare, alle persone che potrà amare, alle parole che potrà dire. E il bene possibile di domani conta più del male compiuto.

La vita rinasce grazie a una parola priva di condanna. Per Scribi e Farisei, la donna era un’adultera da lapidare; per Gesù, è una possibilità di risurrezione non ancora sbocciata. «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (v. 11) non esprime solamente un atto di fiducia nelle possibilità dell’essere umano, ma un atto di fede in Dio, Colui al quale «Nulla è impossibile» (Lc 1,37).

Chiediamoci: mi sento perdonato da Dio? Posso permettere a Dio di perdonare l’altro attraverso di me?