Primo Piano
Quei viaggi che hanno fatto la storia. Quando a emigrare eravamo noi
Si partiva per scappare alla miseria e alla fame. Il fascino del nuovo mondo, di terre esotiche e lontane dove fare fortuna e realizzare i propri sogni. Questo lo scenario che ha accompagnato un secolo emigrazione che allora, come sta accadendo ancora oggi, ha portato con se anche tante storie di coraggio e disperazione
Quando ad emigrare eravamo noi. Si potrebbe riassumere così, in estrema sintesi, il percorso realizzato all’interno del Museo Narrante dell’Emigrazione – Nave della Sila – situato nel cuore dell’altopiano silano. Visitarlo si è trasformato nella “scusa” per raccontare le vicende di chi, a partire dalla fine dell’800, anni della grande crisi del mondo contadino, e fino agli inizi del boom economico nel secondo dopoguerra, ha lasciato l’Italia per trovare fortuna all’estero. Sono infatti quasi 27milioni i nostri connazionali che dal 1876 al 1961 sono partiti con il loro carico di speranza e la valigia piena di sogni per cercare un futuro migliore. Numerosi sono stati i paesi che ci hanno accolto (Stati Uniti, Francia, Svizzera, Argentina, Germania, Brasile, Canada, Australia, Venezuela) e ai quali abbiamo regalato uomini e donne straordinari, pronti a donare talenti e capacità, insieme a bande di delinquenti che hanno avuto il triste merito di infangare il nome dei tantissimi italiani onesti che hanno contribuito alla crescita di quelle nazioni. Tante le storie di povertà e di sofferenza legate a questi viaggi della speranza che molte volte si trasformavano anche in tragedia. L’Italia dalla quale si partiva era una terra povera, dove uomini e animali condividevano lo stesso tugurio e dove l’età media di morte, a fine ‘800, era di sei anni e mezzo. Tanti erano i “malati di fame”, gli analfabeti e la vita di una pecora era ritenuta più importante di quella di un bambino. Al nord come al sud malattie legate alle scarse condizioni igieniche e alla pessima alimentazione erano molto diffuse. Questo il quadro, riassunto sinteticamente, che ha prodotto la prima ondata di emigrati che, ad esempio, nei quarant’anni che precedettero la seconda guerra mondiale vide un milione di calabresi lasciare la propria terra e quasi due milioni da Veneto, Friuli e Trentino prima della fine dell’ottocento. Numeri che però dicono poco delle vicende e delle storie vissute in quegli anni. Anni attraversati da abbandoni, solitudini di mogli, pianti di madri, dalla distruzione di famiglie e dalla perdita di tradizioni. Tanti i paesi che si svuotano perdendo uomini, donne e forza lavoro, diventando dei centri fantasma.
Ad attrarre i nostri nonni, un po’ come avviene oggi con il benessere mostrato in tv e gli “spot” fatti girare sui social per attirare i nuovi migranti, le immagini di un nuovo mondo dove regnava il benessere, la pulizia e tutti erano felici. A partire dalle compagnie di navigazione il viaggio transoceanico veniva presentato come una vacanza sull’oceano fatto dentro cuccette comode e su mari calmi. Per non parlare della propaganda che incoraggiava a partire verso luoghi lontani (USA, Canada, Brasile, Argentina) e sconosciuti nei quali vi era cibo in abbondanza, terreno fertile e disponibile, lavoro. Ma come spesso avviene la realtà era ben lungi da quella prospettata. Infatti, a partire dall’imbarco sulle navi, i sogni di una vita migliore dovevano fare i conti con porti sovraffollati e abusi di ogni sorta. Saliti in nave la sorpresa era ancora più amara perché a farla da padrona era la sporcizia e gli spazi strettissimi. Numerose le storie di migranti che raccontano di navi stracolme e maleodoranti, di cibo scarso, di cuccette affastellate l’una sull’altra, di bagni in comune e di viaggi lunghissimi senza quasi mai vedere il cielo sopra il ponte. A questo vanno le gravi epidemie che spesso si sviluppavano a bordo mietendo numeroso vittime soprattutto tra i bambini e, ancora, i numerosi naufragi che, solo per citare il tristemente noto Titanic (affondato il 14 aprile del 1912 provocando la morte di 1.523 persone) provocano la morte di centinaia di migliaia di emigranti.
Ai tanti che affrontavano il viaggio per mare, soprattutto alla volta delle americhe, vanno aggiunti quelli che si spostavano verso l’Europa: Francia, Germania e Svizzera. I più “fortunati” riuscivano a spostarsi in treno in carrozze luride e stracolme. Molti quelli che nel primissimo dopoguerra si spostarono a piedi sfruttando i passi montani nei quali spesso si rischiava la vita.
Una volta superato il viaggio, l’arrivo nel paese nel quale realizzare i propri sogni, si trasformava in un’altra lotta con la realtà. L’immagine trionfante del Corcovado di Rio de Janeiro, l’imponenza della Torre Eiffel di Parigi e il fascino della Statua della Libertà a New York si infrangeva con lunghi ed estenuanti controlli medici e dei documenti. Molto severo il filtro di Ellis Island, l’isola difronte la città di New York dalla quale passarono milioni di uomini e donne che volevano raggiungere gli Stati Uniti. Visite mediche, test attitudinali e visite psicologiche con criteri così rigidi da risultare spesso vessatori miravano a selezionare gli ingressi costringendo non pochi italiani a rimpatri ancora più disumani.
Superato il primo filtro la vita per gli ultimi arrivati non era così facile. Ad attenderli abitazioni fatiscenti, per i più fortunati, e baracche, tende e tuguri per la maggior parte. A New York, ad esempio, gli emigrati italiani, composti dalla classe più miserabile delle provincie meridionali, abitava nel quartiere più sporco della città, chiamato Cinque Punti (Five Points) dove si viveva in una sola stanza tutta la famiglia, spesso insieme agli animali domestici. Meglio non andò agli emigrati in Europa. In Belgio, ad esempio, alcuni italiani occuparono le baracche destinate qualche anno prima ad un campo di concentramento tedesco, a Ginevra gli affittauri delle camere costringevano a dormire anche in 16 per stanza, mentre sempre in Svizzera una politica contro “le braccia morte che pesano sulle spalle degli svizzeri” (James Schwarzenbach, promotore di 4 referendum anti-italiani) costrinse numerosi italiani a lasciare i loro figli negli “orfanotrofi di frontiera” o a nasconderli in casa anche per anni.
E se il tormento degli squallidi alloggi non doveva bastare a questo si accompagnavano i lavori più umili. Ci si accontentava di tutto per avere un pezzo di pane. I lavori più faticosi e pericolosi erano destinati agli italiani, come il taglio dello zucchero in Australia e negli Stati Uniti, fatto sotto il sole cocente, seminudi e coperti da insetti. Questo accontentarsi di poco provocò, come in parte succede ancora oggi, non poche frizioni con gli altri cittadini che li accusavano di “rubargli” il lavoro. Condizioni di lavoro che provocarono non pochi incidenti e vere e proprie tragedie come quella della fabbrica andata in fiamme a New York il 25 marzo 1911 e della miniera di Marcinelle in Belgio l’8 agosto del 1956.
L’odio verso gli italiani venne accentuato anche dalla criminalità organizzata che soprattutto Stati Uniti trovò una scorciatoia al “sogno americano”.
Ma tra le tante storie di sofferenza, discriminazione e criminalità la maggior parte delle famiglie trovarono, anche se a costo di enormi sacrifici, fortuna contribuendo ad edificare nei campi della politica, della scienza, dell’arte e della letteratura gli stati nei quali hanno vissuto contribuendo a far lievitare il numero di persone con un cognome italiano che vivono fuori dall’Italia a 110milioni.
Sono più di 27milioni gli italiani che partirono dal nostro paese dal 1876 al 1961
Stati Uniti (cinque milioni e mezzo di persone), Francia (quattro e mezzo), Svizzera (quattro), Argentina (tre), Germania (due e mezzo), Brasile (uno mezzo), Canada (seicentomila) e Venezuela (trecentomila). Sono questi i numeri che accompagnano il fenomeno dell’emigrazione italiana per un totale di 27 milioni di nostri concittadini che lasciarono la loro patria a partire dal 1876 (anno in cui si iniziarono a contare le partenze) e fino al 1961 (quando il numero di immigrati superò quello di chi partiva. Un secolo di storia quindi, con numeri che raccontano la storia di un paese che sul finire dell’800 era povero al sud come al nord e che per questo vedeva partire negli anni che vanno dal 1876 al 1900 5.257.830 milioni di persone con numeri esorbitanti da Veneto, Piemonte e Lombardia. Numeri più che confermati negli anni che precedettero la prima guerra mondiale con più di 8milioni di emigrati e con la sola Calabria che ne contava più di 600mila. Esattamente la metà dei numeri citati pocanzi, furono quelli che accompagnarono l’esodo di nostri concittadini negli anni del primo dopoguerra. Furono infatti 4.355milioni gli italiani che partirono dal 1916 al 1942. Dati che si riconfermeranno nel secondo dopoguerra quando larghe sacche di miseria costrinsero di nuovo i nostri nonni a prendere la valigia in mano e cercare fortuna all’estero. Furono infatti 4.452milioni gli emigrati che partirono dall’Italia, 420mila dalla sola Calabria.