Editoriali
Incoscienza e stupore
I media e i nuovi sacerdoti: dov'è la notizia?
Di loro, delle loro scelte e della loro “incoscienza” non c’è traccia nei media tranne in quelli che raccontano il territorio, ascoltano e raccontano la vita e il pensiero della gente, accompagnano la cultura di un popolo nel confronto con le sfide della globalizzazione, sono attenti ai segni di speranza che vengono dalle case, dalle piazze, dalle scuole, dai luoghi di lavoro e di impegno pubblico. Sono soprattutto i media locali a riferire che nelle cattedrali e poi nelle piccole chiese sta avvenendo anche quest’anno qualcosa che provoca stupore, suscita domande, indica luoghi, tempi e persone per incontrare risposte. Sono questi media, che più di altri hanno contatti diretti con i lettori, a pubblicare i volti dei “protagonisti” di questi fatti di cronaca: sono i volti di giovani che in questi giorni vengono ordinati presbiteri. Sono figli di genitori a volte rimasti scombussolati di fronte a quell’improvviso e inatteso “voglio farmi prete”. Sono membri di una comunità che li sente come frutto di una storia comune, di una cultura comune, di una fede comune. Sono figli della gratuità, del dono, dell’accoglienza, della solidarietà: valori che trasformano in popolo un insieme di persone e di famiglie. Si sono sentiti chiamare improvvisamente per nome da Qualcuno a un incrocio della vita e hanno risposto con quella “incoscienza” che nel tempo si illumina nel dialogo tra la ragione e la fede, tra il limite e l’infinito, tra l’amore e l’indifferenza. Giovani “incoscienti” che se non hanno spazio sui media lo trovano in quanti condividono la loro gioia nelle cattedrali, nelle chiese di periferia, nelle piazze e sulle strade addobbate a festa. In questi giorni, scriveva Giuseppe Cacciami, prete e giornalista, “lasciateci gioire perché oggi c’è un altro prete, prete per tutti, per gli uomini che credono e per quelli che lo ritengono inutile, per le donne che lo ascoltano e per quelle che lo disprezzano, per i giovani che gli calano sul cuore i segreti della loro giovinezza e per quelli per cui la veste nera è l’ultimo residuo di una melanconia da estirpare”. Ed è ancora Giuseppe Cacciami a suggerire un percorso per cogliere il significato di un evento pubblico che la cronaca non riesce a cogliere se non per qualche aspetto esteriore. “Essere nel mondo, non essere né fiacchi né deboli, né insensibili e tuttavia privarsi della gioia di sentirsi chiamare sposo e padre, tutto ciò è una testimonianza, è un miracolo: il messaggio più alto che il prete trasmette al mondo è il dono della sua vita. E per un focolare tenero e caldo, che non esisterà mai, altri focolari ritroveranno calore. Per questo gli uomini non si ingannano quando chiamano il prete con il dolce nome di Padre: essi vogliono significare che egli ha lasciato tutto per generarli a una vita più alta”. Sono parole che i media non riescono o faticano a declinare con i linguaggi della cronaca. Più che comprensibile questa loro fatica anche perché, diceva un giovane rettore di seminario presentando i candidati all’ordinazione: “Il prete non ha nulla di proprio da donare: non una parola propria, non delle azioni proprie, non una vita alla quale egli stesso possa generare da sé, ma solo la parola, le azioni, la vita che il Signore trasmette al mondo servendosi di lui”. Il linguaggio mediatico di fronte a chi non ha “nulla di proprio” da dire si smarrisce e mette una foto con didascalia. Può essere sufficiente per suggerire che grazie anche alla “incoscienza” di giovani preti lo stupore continua ad abitare il tempo e accompagna ogni uomo e ogni donna all’incontro con la bontà, la bellezza e la verità.