Non solo filo spinato. C’è un’altra Ungheria, che accoglie i profughi

È successo alla frontiera con la Serbia come a Budapest, alla stazione ferroviaria di Keleti. Ci sono tanti cittadini che non stanno a guardare e portano nei punti di raccolta beni di prima necessità. È un lavoro di accoglienza animato da tante persone: focolarini e amici di Sant’Egidio e di Taizé, Caritas e Ordine di Malta. Anche i gesuiti in prima linea.

Dalla mezzanotte del 15 settembre la frontiera sud dell’Ungheria con la Serbia si è completamente chiusa. Nessuno più riesce a passare. Un vero e proprio tappo al flusso dei migranti che continuano ad accalcarsi alla frontiera. Anche il tratto ferroviario è stato bloccato da un cancello e il confine è pattugliato ogni 25 metri dall’esercito lungo un tratto ritenuto “ragionevole”. È il risultato delle nuove norme decise dal governo di destra di Viktor Orbán per modificare la legge sull’immigrazione e far fronte all’emergenza. A raccontare da Budapest come l’Ungheria sta vivendo questa pagina difficile della sua storia è Pál Tóth, professore di scienze della comunicazione prima all’Università di Budapest e ora all’Istituto universitario Sophia di Loppiano. L’Ungheria è uno dei Paesi dell’Est che ha rifiutato le quote obbligatorie della ripartizione dei migranti decisa dall’Ue e nel pacchetto delle nuove norme varate dal governo di Orbán c’è anche la decisione di allungare la barriera di filo spinato a Est, chiudendo così anche il confine con la Romania. C’è un unico accesso possibile e “legale” per entrare nel Paese. Si trova a Röszke ma qui i migranti entrano con il contagocce e chi si registra e chiede il permesso, si vede poi rifiutare le schede. La tensione si alza – spiega Tóth – perché si scontrano due correnti: da una parte i migranti che vogliono passare inosservati e rifiutano la registrazione perché per la quasi totalità, l’Ungheria è solo un Paese di passaggio; dall’altra il governo e le forze dell’ordine che hanno il dovere di far rispettare le regole di Schengen. Ungheria impreparata. “L’Ungheria – racconta Tóth – non era assolutamente preparata a gestire una situazione simile. I profughi hanno di colpo cambiato la rotta della loro migrazione preferendo la via balcanica al Mediterraneo. Si era sempre pensato che l’immigrazione fosse un problema prevalentemente italiano, concentrato sostanzialmente a Lampedusa. Non si pensava, insomma, che l’Ungheria potesse diventare un corridoio”. Il Paese si è trovato a dover gestire un fenomeno imprevisto cercando di dare un minimo di ordine. Un’impresa difficile e complessa: “In questi mesi i profughi sono entrati dappertutto, hanno devastato campi di coltivazione e hanno generato nella popolazione locale paura”. Accanto al movimento spontaneo delle persone, corre sempre anche un flusso sotterraneo migratorio organizzato da trafficanti di esseri umani che chiedono dai 7 ai 10mila euro per trasportare i migranti dalla Serbia alla destinazione prescelta. Come il camion con targa ungherese abbandonato sull’autostrada viennese con a bordo i corpi di 71 persone. E nella terra di mezzo dove corre l’illecito, può nascondersi e infiltrarsi di tutto. L’Ungheria sta tentando di difendersi da tutto questo ma – mette in guardia il professore – “la soluzione non può essere quella di costruire politiche di rifiuto di accoglienza. È sbagliato mettersi in un atteggiamento di difesa, perché si rischia di suscitare maggiori tensioni”. La migrazione è un flusso “inevitabile” che fili spinati non possono certamente fermare. La maggior parte delle persone che hanno intrapreso questo lungo viaggio verso l’Europa lo hanno fatto per fuggire da terre dove non avevano più alcuna prospettiva di vita. Dori Fialovszky vive nella comunità dei Focolari a Szeged, la città più grande che si trova alla frontiera con la Serbia. È psico-terapeuta dell’infanzia. Da mesi segue il continuo flusso dei migranti nei dintorni della cittadina di Röszke. Arrivano stanchi, affamati, accaldati dopo ore di cammino. Ma soprattutto disperati perché non sanno dove andare. Qualche giorno fa, Dori ha accompagnato una giornalista a riprendere immagini alla frontiera. E proprio lì si è imbattuta in una famiglia giovane con due bambini piccoli che camminavano lungo i binari della ferrovia. Dori propone alla donna di aiutarla a portare lo zaino: vengono da Aleppo e stanno cercando di andare in Francia dove hanno parenti. Erano disperati e stanchi. Lei, in attesa del terzo figlio. Nasce un rapporto che prosegue ancora nel tempo. “Ora si trovano a Vienna. Prima di lasciarli, ho detto che avrei pregato per loro, che Allah non li avrebbe lasciati soli. E loro mi hanno detto che avrebbero pregato per me”. C’è tanta gente che aiuta i migranti, che porta nei punti di raccolta beni di prima necessità. Hanno bisogno di tutto: tende, sacco a pelo, coperte, vestiti, acqua e the. È successo anche a Budapest, alla stazione ferroviaria di Keleti dove i giovani dei Focolari sono andati per giocare con i bambini e gli studenti di medicina per dare una mano nell’assistenza medico-sanitaria. È un lavoro di accoglienza animato da tante persone e comunità come quella della Sant’Egidio, della Caritas e dell’Ordine di Malta, di Taizé. Anche i gesuiti sono in prima linea. Padre Tamás Forrai, provinciale, racconta che l’Ungheria non era preparata a vivere una simile situazione. Per questo i gesuiti hanno messo a punto un articolato programma di formazione per aiutare le persone a capire il fenomeno attraverso incontri, workshop, seminari per insegnanti, programmi per gli studenti. Ogni lunedì, dalle 17 alle 18, si prega per i volontari impegnati e i rifugiati in viaggio. Ma si pensa anche a progetti a lungo termine che aiutano all’integrazione chi decide di rimanere in Ungheria. Un progetto realizzato in collaborazione con tutte le realtà associative presenti sul territorio, Focolari, Sant’Egidio, Taizé. L’altro volto dell’Ungheria che non emerge sui tg.