Editoriali
Con il Motu Proprio un passo verso la Chiesa povera e per i poveri
I beni temporali, lecitamente detenuti dalla Chiesa, non possono però essere usati da quest’ultima per servire se stessa. Essi, infatti, devono essere posti a servizio della sua missione secondo l’esempio degli Apostoli: “erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. (…) Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” . Le riforme introdotte richiamano l’attenzione della Chiesa alla sua “responsabilità di tutelare e gestire con attenzione i propri beni, alla luce della sua missione di evangelizzazione e con particolare premura verso i bisognosi”.
Papa Francesco ha scelto di incentrare il suo pontificato sul rinnovamento della Chiesa nello spirito di povertà. È in questo senso che devono leggersi il Motu Proprio “Fidelis Dispensatur et Prudens”, gli Statuti dei tre nuovi organismi economici (Consiglio per l’Economia, Segreteria per l’Economia e Revisore Generale) ed il Motu Proprio “I beni temporali” del 4 luglio scorso. Quest’ultimo, in particolare, ha ridisegnato i rapporti tra la Segreteria per l’economia e l’Apsa, ovvero, il soggetto giuridico che impersona la Santa Sede nei rapporti patrimoniali in Italia e all’estero, operando come una sorta di banca centrale (o meglio, di tesoreria). Esso rappresenta, dunque, il tassello ancora mancante del tentativo di importare nel governo economico-finanziario della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano il Planning- Programming-Budgeting System (PPDS system). Un sistema questo che – ormai collaudato sia nel settore pubblico che privato -, per funzionare correttamente e non creare distorsioni, rende però indispensabile un complesso sistema di controlli che vedono impegnati, con funzioni differenti, sia la Segreteria per l’Economia, sul fronte del controllo economico e della regolarità amministrativa e contabile, che l’Ufficio del Revisore Generale, su quello della revisione contabile. Non si tratta, dunque, di mettere in discussione il diritto della Chiesa di possedere i mezzi materiali necessari per svolgere la sua missione, quanto piuttosto di interrogarsi sulla destinazione di tali beni e sul loro corretto utilizzo. Una Chiesa povera per i poveri è, infatti, una Chiesa che mette tutti i propri averi esclusivamente al servizio della sua missione, seguendo l’esempio di Cristo e curando con attenzione quanto le è affidato, come un fidelis dispensatur et prudens (Lc, 12,42). I beni temporali, lecitamente detenuti dalla Chiesa, non possono però essere usati da quest’ultima per servire se stessa. Essi, infatti, devono essere posti a servizio della sua missione secondo l’esempio degli Apostoli: “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. (…) Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti 2: 42.44s). Occorre dunque, innanzitutto, sgombrare il campo dall’equivoco secondo cui una Chiesa povera per i poveri alluda a una Chiesa priva di mezzi materiali. In secondo luogo, poiché il rinnovamento della Chiesa nello spirito di povertà va ben oltre l’esigenza di giustizia, essendo richiesto dalla stessa natura della Chiesa, quello su cui occorrerebbe soffermarsi sono invece le modalità attraverso cui assicurare un corretto uso delle risorse materiali e, di conseguenza, come costruire un solido contesto giuridico – il cui centro è, per usare la felice espressione di Giovanni Paolo II contenuta nella Centesimus annus (42), etico e religioso – capace di fare da cornice alle attività economico-finanziarie della Chiesa. Le riforme introdotte da Francesco richiamano l’attenzione della Chiesa alla sua “responsabilità di tutelare e gestire con attenzione i propri beni, alla luce della sua missione di evangelizzazione e con particolare premura verso i bisognosi” poiché, “la gestione dei settori economico e finanziario della Santa Sede è intimamente legata alla sua specifica missione, non solo al servizio del ministero universale del Santo Padre, ma anche in relazione al bene comune, nella prospettiva di uno sviluppo integrale della persona umana”. Infatti, quanti più beni sono disponibili, quanto meglio vengono gestite le risorse a disposizione, tanto più la Chiesa potrà svolgere la propria missione. Sulla scorta dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, come i precedenti, anche questo Motu Proprio riafferma la strumentalità dell’uso dei beni temporali da parte della Chiesa rispetto al compimento della sua missione poiché è proprio in questo legame di strumentalità che si colgono le ragioni del possesso da parte della Chiesa di tali beni. Seguendo l’esempio di Cristo, infatti, che da ricco si fece povero (2 Cor 8, 9), la comunità ecclesiale è chiamata a vivere anche nella gestione dei propri beni temporali il medesimo spirito di povertà. Sul piano pratico tali considerazioni non sono prive di conseguenze. Poiché la liceità del possesso di beni da parte della Chiesa è subordinata alla loro effettiva necessità in funzione degli scopi ecclesiali, il rapporto di necessità esistente tra beni temporali (mezzi) e fini perseguiti pone in capo a coloro che sono chiamati a svolgere ruoli di amministrazione e gestione di tali beni una particolare diligenza che passa attraverso l’esercizio delle virtù umane e l’adozione di strumenti trasparenti nella gestione del patrimonio della Chiesa, sia per i cosiddetti beni “finali” (ovvero, quelli che servono direttamente al fine) che per i beni “strumentali” (ovvero, quelli che servono solo indirettamente al fine, fornendo un reddito). L’impegno di Francesco per una Chiesa povera per i poveri è sintomatico della volontà del Pontefice di fare del proprio pontificato un tentativo di realizzare quelle condizioni istituzionali, oltre che di natura etica e religiosa, per garantire il corretto uso delle risorse della Chiesa e la loro destinazione preferenziale in favore degli ultimi e degli esclusi dalla società dello scarto. Queste riforme – con il loro richiamo alla responsabilità della Chiesa di tutelare e gestire con attenzione i propri bene, alla luce della sua missione e dell’opzione preferenziale per i poveri – rappresentano, perciò, la pietra angolare di una nuova cornice giuridico-istituzionale all’interno della quale dovrà inquadrarsi la gestione delle risorse ecclesiali. In tal modo, esse segnano l’avvio di un percorso che porterà la Chiesa, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, a ridefinire il proprio assetto organizzativo e funzionale al fine di rispondere con maggiore efficacia alle esigenze contingenti del nostro tempo e a diffondere un rinnovato spirito di servizio nelle istituzioni ecclesiali.