95° di PdV (1) – L’album dei ricordi: “scatti” di redazione 1970

intervista a don Pompeo Nigro, redattore di Parola di Vita

“Parola di Vita deve fare onore alla propria testata: si parla di ‘vita’ e la vita è un continuo crescente; per cui deve andare avanti senza smentire la propria autenticità e, d’altra parte, aprirsi: cioè, deve aprire la conchiglia per cogliere la perla e per cogliere il ‘bello’ senza dubbio, però senza dimenticare l’altro lato della medaglia, purtroppo, il negativo che c’è”. Erano gli anni ’70, quando don Pompeo Nigro, allora giovane sacerdote, ha contribuito alla rinascita del nostro giornale diocesano; da uomo colto e di profonda sensibilità, ci ha donato uno scorcio di quei giorni e un punto di vista sul ruolo che a suo avviso dovrebbe avere oggi una testata giornalistica cattolica. Punto di vista quanto mai significativo in occasione del 95° compleanno di Parola di Vita.

Ci racconti la sua storia in Parola di Vita.

Mentre progrediva la mia vita accademica nell’ambito delle Scienze Umane, filosofiche e teologiche, poi nelle scuole statali come docente e come preside, e mentre vivevo a pieno il mio servizio in parrocchia, ho abbracciato l’esperienza in Parola di Vita coordinata da don Serafino Sprovieri; ci riunivamo di sabato sera, in una sala del Seminario, dove oggi si trova il collegio vescovile. Il gruppo di Redazione era costituito da Santino Fasano, Salvatore Fumo, Franco Bartucci che è poi è passato all’Università come giornalista e, qualche volta, partecipava pure Peppino Fumo.

Come procedeva il lavoro di Redazione?

All’epoca, don Serfino veniva con i comunicati ANSA: da qui, selezionavamo i fatti e gli avvenimenti di maggiore rilievo. Sulla scorta delle notizie scelte si procedeva alla programmazione settimanale, il “timone”, di Parola di Vita.

Che cosa Le è rimasto di quel modo di fare giornalismo, in quella che potremmo definire come la fucina di Parola di Vita?

Mi è rimasto, in primo luogo, la fedeltà a un impegno: comunicare agli altri le notizie cercando di mettermi nei ‘panni’ del lettore; svestirmi, dunque, dei miei per interpretare le reazioni altrui. Inoltre cercavamo di essere prudenti nel non personalizzare il lavoro, cioè nel non vedere il giornale come strumento personale o di parte. Il nostro fine era solo l’essere utili al lettore, non interpretando la realtà secondo il nostro esclusivo punto di vista, ma offrendo una lettura di essa senza trascurare la ‘paternità’ del giornale: ogni realtà sociale andava letta da un punto di vista sociale e umano, senza tradire la visuale cristiana e di fede. Non bisognava essere ‘amorfi’: si voleva comunicare la presenza della Chiesa nel contesto sociale.

Come vede l’esperienza del giornalismo cattolico oggi ed è utile ai giovani l’idea di un giornale cattolico secondo la sua esperienza?

È utile nella misura in cui sa affrontare le problematiche giovanili suscitandone l’interesse a partire dalle problematiche che essi vivono: un giornale di stampo di cattolico, purtroppo, è già percepito con un pregiudizio. Per cui, a mio avviso passatemi il termine, dovrebbe essere meno ‘clericale’, se vuole affrontare la realtà del giovane, credente e non credente; poi, da fatti reali messi a confronto, deve estrapolare il principio. Bisogna, inoltre, anticipare le necessità informative e comunicative dei ragazzi: questo richiede lungimiranza e professionalità. Un giornale trova più aderenza se non è di parte. Ciò non significa annientare il proprio punto di vista a favore di una pericolosa neutralità. Ma non si può raccontare solo il ‘bello’. La ricchezza della morale cristiana risiede nell’aderenza al Vangelo vissuto nella quotidianità, non nell’enunciazione del principio morale in sé.

Quale augurio fa a Parola di Vita?

Vi auguro sempre di essere sulla cresta dell’onda e di segnare una costante vitalità non solo da parte di chi opera oggi in Redazione, ma maggiormente da parte di chi deve recepire il messaggio.