Una chiesa cemento della comunità

Il racconto di padre Celso Duca, missionario in Brasile da sessant’anni nella città di Araputanga

Padre Celso Erminio Duca compirà novant’anni tra qualche mese e da sessanta è missionario in Brasile. Quando lo incontriamo nel suo ufficio parrocchiale ad Araputanga, nel Mato Grosso, ci racconta subito dei suoi prossimi progetti. “Vogliamo realizzare un grosso oratorio per i nostri ragazzi, ma le mie gambe non mi permettono di seguire tutto come vorrei e abbiamo dovuto rallentare un po’”. 

Di rallentare, il sacerdote originario di Sondrio, in Brasile dal 1958, non ha nessuna intenzione, perché ha ancora tanta voglia di sognare e pregare insieme alla sua comunità. Abbiamo voluto raccontare la sua storia, in occasione del suo sessantesimo anniversario di missione. 

Quando decise di voler essere missionario?

È sempre stata la mia vocazione. Entrando nel seminario comboniano avevo questa intenzione. All’epoca si pensava di andare in Africa. Poi ci si concentrò sul Brasile e appena ebbi l’occasione venni qui.

Come ricorda il suo arrivo in Brasile?

Quando arrivai in Brasile, da giovane sacerdote comboniano, fui mandato nello stato a Nord di Rio de Janerio, in un paesino vicino la città di Vittoria. Era una zona vergine che iniziava a essere invasa per fare dei pascoli. Lì rimasi per ben diciassette anni. Fu un’esperienza magnifica: le persone che ci accoglievano, il tanto lavoro da fare e la Madonna che ogni giorno ci spianava la strada. 

Che ricordo ha del primo viaggio?

Venni da solo la prima volta. Ricordo che mi accolsero al porto per accompagnarmi al posto dove sarei dovuto andare. Non conoscevo nemmeno il portoghese. Poi iniziai a parlare e in un mese parlavo quasi bene. Quando arrivai, il Brasile era un paese molto arretrato. Ora ha fatto passi da gigante.

Quanto è stato importante l’aiuto dei missionari?

Il nostro primo compito è sempre stato quello di evangelizzare, fare avanzare la Chiesa e professare Cristo e la Madonna. Poi siamo stati vicino alle persone, abbiamo sognato insieme a loro, dato idee e portato una mentalità diversa. Insieme è stato possibile fare tanto. 

Come vivevano la fede le comunità brasiliane che incontrò al suo arrivo?

Una fede molto tradizionale. I brasiliani sono molto religiosi, ma avevano bisogno di essere guidati.

Dopo la prima lunga esperienza, sei arrivato qui ad Araputanga.

Il passaggio non fu indolore. Ci furono delle incomprensioni con i comboniani, ma la provvidenza alla fine tracciò la strada. Quando arrivai, trovai un villaggio di mille persone con due case di mattoni e il resto di legno. Venni accolto come un angelo. Non c’era nulla di organizzato, ma le persone si fidavano di me. Una delle prime opere realizzate fu proprio la costruzione di un convento di clausura per le suore. Poi ci dedicammo alla chiesa.

Come facevate con i soldi?

La provvidenza non ci ha mai abbandonato. La maggior parte dei soldi sono frutto delle comunità del posto. Ricordo che una volta scrissi anche a papa Paolo VI che “inaspettatamente” ci inviò cinquemila dollari per la costruzione delle Chiese. Poi, le raccolte di amici e fondazioni anche dall’Italia. 

Quando venne costruita laChiesa intitolata a Nossa Senhora di Fatima?

Nel 1978, venne il missionario laico Vittorio Fasani, un architetto che progettò e costruì la Chiesa in soli due anni e mezzo, con cinque operai locali. Una persona straordinaria, umile e onesta. Lo ricordo con affetto e stima.

Oltre a una guida nella fede, il suo divenne anche un percorso di riscatto sociale?

La costruzione della Chiesa aiutò a cementare ancora di più la comunità. C’era anche bisogno di lavoro, così aiutai le persone a mettersi insieme e a fare cooperativa. Nacque così quella che oggi è Lacbom, un’azienda che produce latte e derivati, dando lavoro a quasi trecento persone. Il percorso non fu semplice, ma il Signore ci spianò ancora una volta la strada con un finanziamento che consentì di comprare i primi macchinari.

Poi, dopo qualche anno, fu la volta della Facultade Catòloca Reinha da Paz?

Anche per l’università il cammino fu molto lungo e difficile. Quella più vicina era a Cuibà, a quasi cinquecento chilometri di distanza. Serviva un posto per far studiare i nostri ragazzi (oggi quasi mille iscritti). Questo era l’unico modo per far sviluppare il territorio con intelligenze nuove e una mentalità diversa, anche se tanti sono costretti ad andare via, perché non ci sono molte opportunità di lavoro.

In questi sessant’anni in Brasile quante volte sei tornato?

La prima volta tornai dopo nove anni. Poi, in media ogni due anni. 

Hai mai pensato di tornare in Italia?

A fare cosa? Il mio posto è qui. Qui sono parroco. Qui c’è la mia comunità. Quando il vescovo che mi accolse mi portò qui per la prima volta, mi disse che questa sarebbe stata la mia nuova casa. Così è stato.

Ci sono stati momenti difficili?

Sì, senza dubbio, ma la Madonna mi è stata sempre vicina. Ho sempre fatto quello che potevo. Spero di aver fatto tutto quello che era nelle mie possibilità.

La tua è una parrocchia molto grande, come riesci a fare tutto?

Ci sono ventitremila abitanti, distribuiti in trentacinque cappelle, in un territorio molto vasto. All’inizio ci si spostava con il cavallo e le strade erano pessime. Adesso, anche se non sono tutte in buone condizioni, si riesce ad andare con la macchina. Da circa un anno, mi aiuta il giovane sacerdote don Celso. Io non ho più le forze di andare in giro nelle comunità.

Tra le opere che ha contribuito a realizzare dobbiamo menzionare anche Radio Arco Iris Araputanga. Quanto questo mezzo è stato utile per diffondere la Parola?

È servito davvero tanto. Qui le distanze sono grandi e ogni giorno la radio, dove lavorano undici tra tecnici e giornalisti, dedica circa tre ore di programmazione all’annuncio del Vangelo. Per molti anni, ho curato uno spazio con una mia trasmissione.

Passiamo ora a parlare del suo rapporto con padre Nazareno Lanciotti, il sacerdote originario di Subiaco assassinato nel 2001 e di cui è in corso la causa di Beatificazione per martirio. 

Lo incontrai per la prima volta a Jauru. Arrivò qui con l’operazione Mato Grosso due anni prima di me. Era una persona molto allegra, un prete eccezionale, appassionato, amato da tutti. Noi andavamo molto d’accordo. Quello che faceva lui lo facevo anche io e viceversa. Eravamo come due fratelli, ci sostenevamo in tutto.

Prima di questi tragici eventi ci furono anche gli anni della diffusione delle Teologia della liberazione.

Ci furono momenti di difficoltà, di confusione e di solitudine. Noi predicavamo il Vangelo, loro il comunismo, sfruttando il sacerdozio.