Primo Piano
Un cuore gonfio d’amore per Cristo
Padre Anselmo Mandrilli in Brasile da quasi cinquant’anni insieme alla “sua gente”
Mezzo secolo da missionario. Si potrebbe sintetizzare così la storia di don Anselmo Mandrilli, classe 1940, sacerdote della diocesi di Cuneo, dal 1969 in Brasile. L’abbiamo incontrato nella sua parrocchia, San Paolo di Mirassol, nello stato del Mato Grosso.
Don Anselmo, come inizia la sua storia?
Durante il Concilio, il nostro vescovo, monsignor Guido Tonetti ebbe modo di parlare a lungo con il vescovo di Toledo, monsignor Armando Cirio, originario di Asti. Gli chiese se nella nostra diocesi ci fossero dei sacerdoti disponibili a diventare missionari nella diocesi brasiliana. Si trattava di una diocesi immensa, dove ogni anno arrivavano più di centomila migranti provenienti dal Sud: Santa Caterina, Rio Grande. La maggioranza era cattolica. Allora, il nostro vescovo fece un appello sul bollettino diocesano e si presentarono i primi quattro.
Tra questi c’era anche lei?
Io ero ancora in seminario, ma avevo fatto domanda di partire con i missionari della Consolata. Il vescovo mi disse di terminare gli studi e di fare cinque anni di curato in parrocchia. Quando terminai i cinque anni, andai nuovamente dal vescovo per chiedere il permesso di partire. Così, arrivai nella diocesi di Toledo dove restai per ben tredici anni.
Come ci si preparava per “diventare” missionari?
C’era un corso a Verona della durata di quindici giorni per avere i primi rudimenti sulla lingua e sui costumi e per capire la mentalità del luogo. Anche partire non era per nulla semplice, perché a quel tempo non c’erano sovvenzioni particolari, ma, in quel periodo, il governo italiano pagava il biglietto ai migranti, così “approfittai” dell’occasione e feci il biglietto come migrante.
Come fu il primo impatto con il Brasile?
Il gruppo con il quale partii era composto da undici persone. Quando arrivai nella diocesi di Toledo, il vescovo ci affidò il seminario minore. C’erano famiglie molto buone, ma che non avevano avuto nessuna possibilità di studiare, a causa della povertà. Stetti tre anni e mezzo in seminario. Poi mi chiesero di spostarmi nella parrocchia di Cascavel che si trovava ai confini della diocesi. L’unica difficoltà fu quella di raggiungerla. Ero senza un soldo e il vescovo mi pagò il viaggio.
Lì restai per costruire una Chiesa insieme a un ingegnere di origine italiana. Venne su una struttura capace di contenere ben novecento fedeli seduti.
Intanto anche il seminario iniziava a dare frutti. Si formavano i primi sacerdoti e fu per questo che pensammo di fare un’altra scelta missionaria.
Cioè decideste di spostarvi dove c’era più bisogno di voi?
Tutto avvenne grazie a un sacerdote francese che era missionario nello stato del Paranà e all’allora vescovo di Caceres. Fu lui che venne a cercarci, perché aveva saputo della nostra disponibilità.
Quindi, dalla diocesi di Toledo si spostò in quella di Caceres. Lì c’erano già altri due missionari italiani: padre Nazareno Lanciotti e padre Celso Duca.
Siamo agli inizi degli anni ‘80 e quando arrivai li trovai già lì. Era bello immaginare di poter lavorare con loro. Allora chiesi il permesso al vescovo di poter restare e, all’inizio dell’82, mi trasferii definitivamente. In quel tempo, a Mirassol c’era una sola parrocchia, ora sono due. Si tratta di una cittadina di trentamila abitanti.
Era amico di padre Nazareno Lanciotti di cui è in corso il processo di Beatificazione?
Era un uomo straordinario. Amava la sua gente in modo incredibile. Aveva molte qualità umane. Era anche musico, cantore e pittore. Non so come riusciva a fare tutte quelle cose. La sua era una delle parrocchie più organizzate. Era un uomo umile e capace.
Siamo anche negli anni di massima espansione della Teologia della Liberazione. Che aria si respirava?
Alcune volte uscivo dalle assemblee diocesane piangendo. Il tentativo di introdurre il comunismo attraverso la teologia è una cosa senza senso. Una cosa è difendere l’oppresso, altro è usare la fede per motivazioni politiche.
Ora torniamo a Mirassol. Che situazione trovò quando arrivò lì?
Quando arrivai, la prima notizia che mi diedero fu quella della morte di padre Tiago, il primo missionario e parroco del luogo, un italiano della diocesi di Brescia. Morì di malaria a quarantanove anni. Ancora oggi è nel cuore del popolo. Il giorno della sua morte, il 27 febbraio, è festa della città. Fu per questo che rimasi lì, anche se la mia destinazione iniziale era un’altra.
Com’era la vita in quel periodo?
A quel tempo, tutto era molto difficile. Le strade erano pessime. Si andava spesso a cavallo. I carri si impantanavano nell’acqua e mi è capitato di restare bloccato nella foresta una notte intera con il pericolo dei serpenti. Quello era il periodo in cui iniziò l’esodo rurale. Si piantava molto caffè che dava un piccolo reddito.
Quindi iniziò la sua avventura a Mirassol?
C’era un quartiere che era molto violento. Nella maggior parte delle comunità, riuscivo ad andare a dire la messa solo una volta la settimana. Allora al vescovo, che visitava noi preti con molta frequenza e stava con noi, dissi che il barrio di San Paolo (dove ora sono parroco) stava crescendo molto e che se avesse trovato un prete al posto mio, sarei andato lì. Lui non mi disse nulla, ma, dopo tre mesi, mi concesse quanto avevo richiesto.
Quali furono i primi passi?
Quando presi in mano la parrocchia, c’era solo una cappella di legno. La divisi in due per fare una piccola stanza per me, mentre trasformai un baraccone vicino per adibirlo a chiesa. Nessuno scommetteva un centesimo sul fatto che sarei rimasto lì, viste le condizioni misere di vita. Invece, ci sono da ben trentaquattro anni. Mi sono sentito uno strumento di Dio.
Che ricordi ha di quel primo periodo?
Le persone erano disponibili, anche se erano sparse in piccoli villaggi. Dove andava un prete, lì nasceva una comunità, una città. La gente qui ha fiducia nei sacerdoti. Ricordo che una delle prime cose che dissi fu quella di “riabilitare” il nome di quella cittadina, perché anche se in tanti ne parlavano male, ero sicuro che c’era tanta brava gente. Fu così che iniziò la mia missione pastorale insieme a quelle persone, alla mia gente.
Quello che ho visto è che le persone che accolgono il Vangelo cominciano anche a progredire umanamente ed economicamente.
In Brasile è una consuetudine lasciare molto spazio ai laici soprattutto nelle comunità?
È indispensabile perché le comunità camminano con i laici. Sono un sostegno concreto alla pastorale impostata dal sacerdote.
Oggi, quali sono i servizi che cercate di portare avanti nella vostra comunità?
Abbiamo messo su una piccola scuola di computer per chi vuole imparare a utilizzarlo. Poi, un problema da affrontare fu quello di aiutare i braccianti che rimanevano soli. Così, accogliemmo l’invito di Papa Giovanni Paolo II che ci incoraggiava a sostenere soprattutto chi era senza famiglia. Così, insieme alla comunità, costruimmo delle casette per i muratori de ruas (di strada), con una piccola cucina, bagno e camera da letto. Tutta la comunità li sostiene preparandogli da mangiare e aiutandoli nella vita di tutti i giorni. Tante sono le storie di persone che vivevano per strada o in dei tuguri e, grazie a queste piccole sistemazioni, sono rinate, partecipano alla vita della comunità, vengono a messa e si confessano.
Cosa immagina per il suo futuro?
Non so quale sarà il mio futuro. Ho già settantotto anni. Mio padre voleva che fossi sepolto in Italia. Fino a quando posso, resterò qui. Se dovessi non farcela, credo tornerei in Italia.
Che ruolo ha avuto la preghiera nella sua vita da sacerdote missionario?
La preghiera è fondamentale nella vita di un missionario. Senza la preghiera, la missione crolla, non ha senso.