Editoriali
Sul crocifisso nei luoghi pubblici
Un segno di fede, un indice della cultura di un popolo. Ma per rieducare a Cristo bisogna partire dalla fede nella risurrezione, come la vissero i primi discepoli.
Di tanto in tanto dall’agone politico (e quindi culturale) del Paese viene ripescato il tema della presenza del crocifisso nei luoghi pubblici. Questa volta il dibattito sembra quasi una naturale conseguenza delle polemiche cui abbiamo assistito nei mesi scorsi sull’esibizione di simboli religiosi da parte di un ex ministro. Il tema è stato più volte dibattuto, tanto che se ne sono occupati filosofi, storici, giuristi. Preti, ovviamente. Tanto basta per esprimere ancora una volta la delicatezza e la vastità della questione. La cosa che forse più colpisce è la vis polemica che ogni volta viene innestata, che richiede, da chi voglia fare opinione pubblica costruttiva, una sintesi diversa. Il crocifisso, checché ne pensi il ministro, non è divisivo, non lo è mai stato storicamente e non lo è tuttora. Dire il contrario significa sminuire una storia reale vissuta, di cui il Paese è impregnato. E’ un dato di fatto. Ma non può bastare.
Come cristiani non possiamo abdicare al significato del crocifisso. E’ un segno di fede. Ancora: è un segno di fede non solo sbandierata, ma vissuta, sicché, laddove non vissuta, può diventare scandalo. E se diventa scandalo, il crocifisso esposto può essere una contraddizione letale. In questo tempo di transizione storica, laddove l’uomo si interroga su se stesso alla luce dei cambiamenti in atto, in una società che non può più dirsi intuitivamente cristiana, una rieducazione alla fede non può partire probabilmente dall’esposizione del crocifisso. In sostanza, il crocifisso esposto è la conseguenza di una fede convinta. Diciamocelo chiaramente noi della messa domenicale e ancor di più noi della messa quotidiana. Lo stesso vale per le croci e i rosari al collo. Occorre in sostanza ripartire dalla paradossalità e novità del cristianesimo nelle sue istanze primarie, ovvero dal mistero insondabile di Dio uno e trino, risorto e vivo, e da quello anche più sondabile dell’incarnazione, che ci è più vicino perché ci consente di credere in Cristo utilizzando la ragione delle nostre categorie. E’ il kerigma, l’evento di speranza e anzi di certezza che ha cambiato la vita di un manipolo di discepoli. Qui il crocifisso diventa senso autentico.
C’è, però, l’altro aspetto, forse più delicato. Quello per il quale il crocifisso è segno identitario di un popolo, di una cultura, di una storia. Non è una semplice teoria, né una presa di posizione, quanto l’espressione di ciò che abbiamo conosciuto e vissuto da sempre. Le nostre aule scolastiche – mi riferisco agli anni ’70 – ’80, non a quelle anteconciliari – mi riferisco cioè agli anni che avevano già assorbito la contestazione, ospitavano tutte un crocifisso, ma nessun allievo ha mai contestato; i nostri tribunali la stessa cosa, e gli ospedali, e i negozi. Più che motivo di contestazione, anzi, il crocifisso è sempre stato ritenuto ancora di salvezza, certezza. L’espressione, un po’ banale, “siamo in Italia”, come a giustificare la presenza delle croci nei nostri spazi pubblici, ha pure un valore non indifferente. Sì, siamo in Italia, quella croce nelle aule, nei tribunali, nei supermercati, nelle macchine, sulle strade, ci appartiene. Non è un ornamento e basta, è manifestazione viva di una Costituzione – ad esempio – che guarda con attenzione ai costumi di un popolo, alle espressioni della sua storia e della sua cultura. E’ ancora banale, ma rimane attuale e significativa la lezione culturale di Benedetto Croce, un laico: “perché non possiamo non dirci cristiani”. Lo spazio pubblico e quello privato non sono due sfere separate, non vanno in contraddizione, non possono essere vasi incomunicabili.
In ultimo, una nota sui valori, una parola che amo poco, ma che tutti capiamo. Il crocifisso non è segno di guerra, di sfida, non invita alla violenza, sicché in una società che giustamente condanna ogni violenza, di qualsiasi tipo, quell’immagine richiama alla mitezza, alla prudenza. In una società sincronica, laddove spesso si vuole tutto e subito senza alzare un dito e senza ringraziare, ovvero senza guardare in faccia nessuno, il crocifisso propone il sacrificio, il dono. Soprattutto, la croce non esclude nessuno, e non esclude perché nella vita, in un modo o nell’altro, la sofferenza la viviamo tutti. Anche questa polemica passerà, e lo farà senza clamori, perché è difficile estirpare ciò che è nel dna. Al di là di ministri e di idee personali.