Editoriali
La guerra è sempre una avventura senza ritorno
Non si esportano i valori e la democrazia con la forza delle armi. L'Afghanistan ripiomba nel terrore
Kabul è caduta, in Afghanistan regna la confusione totale. Dopo un ventennio di operazioni di guerra e di “pace” guidate dalle forze d’occidente la nazione è ripiombata nella paura. Scene che sembravano dimenticate, minacce, nuove costrizioni in nome di regole e di leggi ispirate dal fondamentalismo coranico, e poi il ritiro dei soldati o la fuga. Una storia che si ripete e che sembrava definitivamente chiusa. Morti a migliaia, eroi coraggiosi delle civili nazioni, perdite ingenti o guadagni per le sole industrie delle armi. E poi disperazione, tanta disperazione, narrata da fotogrammi di gente che si appende al carrello degli aerei o che getta oltre la recensione i figli, nella speranza di trovare braccia accoglienti. Si ricomincia con i muri sui confini e con le strategie predicate da politici che si schierano da una parte e dall’altra accusando di fallimento il governo di turno, chi si ritrova a prendere oggi decisioni per miopi programmi che erano senza futuro. Si, perché la guerra è sempre un avventura senza futuro, un’avventura senza ritorno. Poche e troppo deboli voci isolate chiedono di accogliere, di studiare corridoi, mentre avanzano nuovamente portatori di terrore e di morte che mostrano le armi. L’Afghanistan si sta rivelando la Saigon dell’Occidente per alcuni, per altri la debolezza di un popolo che non ha capito, nei due decenni, che doveva essere fautore del suo destino. Una cosa è certa: non bisognava solo addestrare un esercito più o meno armato, bisognava preparare teste e cuori per una battaglia di civiltà e di progresso che si fa più tra i banchi di scuola che nei poligoni del deserto. Bisognava aprire luoghi di cultura, ospedali e pensare ad un piano per il lavoro e non per lo sfruttamento delle risorse. Vent’anni non bastavano, sicuramente, ma potevano essere il tempo giusto per la semina, per la distribuzioni di elemosine. I soldati rientrano alla base e si lasciano dietro una scia di dolore, un fuoco sotto la cenere che si è riacceso subito ed ha bruciato una nazione intera e gli sforzi, gli investimenti, fatti in termini di economia e soprattutto di vite. Ora i talebani mostrano i loro trofei, le armi americane lasciate sul terreno da un esercito che non ha più interesse a restare, da una politica che forse rivuole l’instabilità o vuol perdere la battaglia riconsegnando quelle terre ai talebani. Un cambio di scena teatrale che dovrà giustificare altri interventi? Altre scelte politiche? Speriamo non altre guerre, non altre occupazioni. Ora però si apre un altro fronte epocale di povertà e disperazione e si irrobustisce il fiume di profughi, di gente che vuole speranza, tranquillità, che a diritto ad futuro che spesso è negato, proprio da quell’occidente che voleva liberarli. Venti di guerra, dense nubi occupano i cieli orientali e non fanno presagire nulla di buono.