Agroalimentare criminale anche nelle etichette
L’uso di dare ai prodotti alimentari nomi che si richiamano alla criminalità organizzata danneggia immagine e bilanci delle imprese.
La criminalità organizzata in agricoltura e nell’agroalimentare vale anche per la promozione e l’immagine di molti prodotti in giro per il mondo. Abitudine becera e dannosa, quella di appioppare a molti alimenti nomi che ricordano mafia, camorra e ‘ndrangheta, abitudine però diffusa in tutto il mondo. Che non fa male solo al buon nome dell’agroalimentare nazionale, ma anche, spesso, ai bilanci delle imprese oneste che lo popolano. A sollevare il caso è stata qualche giorno fa la Coldiretti a Palermo con una rassegna di prodotti agroalimentari “venduti – si legge in una nota -, nel mondo con nomi che richiamano gli episodi, i personaggi e le forme di malavita organizzata più odiose, sfruttati per fare un business senza scrupoli sul dolore delle vittime e a danno dell’immagine del Paese”. Gli esempi sono numerosi. C’è dal vino portoghese Talha Mafia fino al caffè Mafiozzo, passando per una serie di condimenti e alcolici con nomi che ricordano la malavita fino ad arrivare ad un libro di ricette The mafia cookbook, oppure alla possibilità di acquistare caramelle su un portale che unisce il vocabolo inglese che le indica con uno di quelli che indica la criminalità organizzata. Tutto senza dire di un altro aspetto che colpisce la filiera agroalimentare. Accanto ai nomi dati ai prodotti, infatti, ci sono quelli dati ai locali. Anche in questo caso, la galleria potrebbe essere molto lunga: sempre i coltivatori diretti, indicano (è una stima) in circa trecento i ristoranti che nel mondo si richiamano al nome alla mafia, da “Baciamo le mani” a “Cosa Nostra” fino agli improbabili Felafel Mafia, Nasi goreng Mafia e Karaoke Bar Mafia.
Solo immagine e nient’altro? Non proprio, visto che, al di là delle infiltrazioni della criminalità organizzata nell’intera filiera agroalimentare nazionale, quello che ormai si chiama mafia marketing va di pari passo con il giro d’affari della contraffazione alimentare mondiale che danneggia i produttori che esportano. Anche in questo caso si può solo parlare di stime, che tuttavia pesano moltissimo. Stando a Coldiretti, la contraffazione e la falsificazione dei prodotti alimentari italiani solo nell’agroalimentare ha ormai superato i 120 miliardi di euro, quasi il doppio delle esportazioni, e costa all’Italia trecentomila posti di lavoro. L’immagine, quindi, va di pari passo con l’economia. Soprattutto nei mercati emergenti dove – viene rilevato dall’organizzazione agricola – spesso il falso è più diffuso del vero e condiziona quindi negativamente le aspettative dei consumatori.
Accanto a tutto questo, come già detto molto volte ma mai abbastanza, c’è la mano nera della criminalità organizzata lungo tutta la filiera. Qualche mese fa sempre i coltivatori avevano fatto due conti. Non si tratta più “solo” di furti di attrezzature e mezzi agricoli, racket, abigeato, estorsioni. Ormai, da tempo, c’è ben altro come l’imposizione di manodopera o di servizi di trasporto o di guardiania alle aziende agricole, il danneggiamento delle colture, le aggressioni, l’usura, le macellazioni clandestine. Senza dire anche del caporalato (e dello sfruttamento di migliaia di disperati) e delle truffe nei confronti dell’Unione europea. Ma viene, ad esempio, condizionato anche il mercato della compravendita di terreni e della intermediazione e commercializzazione degli alimenti, vengono poste sotto controllo criminale intere catene di supermercati e ristoranti. Per capire basta un numero: stando all’Osservatorio Agromafie, il giro d’affari criminale nell’agroalimentare è stimato in qualcosa come oltre 24,5 miliardi di euro.
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