Israele-Palestina. Un conflitto che nasce da lontano
Uno speciale per conoscere la storia dei due popoli e di una Terra contesa dove la pace può nascere solo da atti coraggiosi
I recenti fatti di sangue e il conflitto che si sta consumando nella Striscia di Gaza sono stati definiti “l’undici settembre di Israele”. La strage terroristica del 7 ottobre 2023 che ha portato solo morte, ha ovviamente innescato una nuova spirale di odio e di violenze motivata dal giusto diritto alla difesa. Ma una scia di sangue inarrestabile sta insanguinando la terra di Gesù.
Tanti morti fra la popolazione, oltre che tra i soldati, dopo che quei giovani, che partecipavano al rave party nel deserto per celebrare la natura in occasione festa ebraica del Sukkot, sono stati trucidati. La strage è stata chiara opera dei miliziani di Hamas che, armati fino ai denti, sono piombati sulla festa alle 6 e mezzo del mattino ed hanno scatenato l’inferno: prima le sirene antiaeree, poi le esplosioni di razzi... sulla spianata della festa sono arrivati decine di uomini armati, a bordo di moto, furgoni e blindati. Altri sono piovuti dal cielo. Un’azione coordinata che ha colpito la geste per strada e fino a dentro le case. Nessuno ha fatto in tempo a capire; sembrava una tragica riedizione del Bataclan.
L’attacco è proseguito per ore: gli uomini di Hamas hanno puntano sulle case e sui villaggi. Violenza, morte. A terra corpi violati non solo dalle armi o dai lunghi coltelli, alcuni sono stat bruciati vivi. Alla fine sono state sequestrate quasi trecento persone e fra questemolte donne e bambini. Per l’accanimento da parte degli uomini di Hamas – spesso anche loro ragazzini –, Kfar Aza resta una delle pagine più dolorose del “sabato nero” in cui 1.400 israeliani, in gran parte civili, sono stati massacri, 3.300 i feriti, 242 gli ostaggi catturati. Il resto è cronaca. Israele però, il gigante addormentato, si svegliato.
È partito un attacco senza precedenti. Sono più di cinquanta giorni di guerra e di bombardamenti ininterrotti. C’è stata una tregua concordata con fatica, per il rilascio di alcuni ostaggi da entrambe le parti, ma è duarata poco ed è stata anche violata. Da qualche giorno è ripresa la grande operazione di guerra per stanare Hamas anche al sud della Striscia. Ma cosa ci sta alle spalle di questi terribili eventi. Molti conoscono poco la storia travagliata di questa Terra e di questi popoli; eppure con facilità, parteggiano per una parte o l’altra; si partecipa a manifestazioni sotto le bandiere palestinesi o israeliane, e alcune volte con superficialità si inneggia per leader sanguinari dell’una o dell’atra fazione. Ben poco si conosce quanto è accaduto in più di mezzo secolo da quelle parti, meno ancora si sa delle responsabilità che hanno le superpotenze e di quel mix esplosivo ‘politico-religioso’ che in quelle terre continuamente viene riacceso e alimentato. Sorvolando sulle vicende storiche dell’antico popolo nomade che ha cercato e trovato una terra alla quale è stato condotto dal suo Dio, che ha subito esili e sottomissione da parte di egiziani, babilonesi e romani, e poi da crociati e ottomani, vogliamo andare agli inizi del ‘900. Torniamo a quel terribile secolo breve nel corso del quale, nei confronti degli ebrei, si è espressa con grande violenza l’immotivato antisemitismo che è culminato con il genocidio nazista durante la seconda guerra mondiale. Nel 1917 in Palestina erano stanziati gli inglesi e proprio in quegli anni iniziava la prima migrazione ebraica dall’Europa verso questa terra sotto la spinta del sionismo di Theodor Herzì, un ebreo ungherese. Erano gli anni nei quali il governo inglese, con la dichiarazione di Balfour, si dichiarava favorevole alla costituzione di un focolare nazionale ebraico in Palestina. Ma dopo le vicende della Shoah, nel 1947, scoppia la prima guerra arabo-israeliana dopo il ritiro degli inglesi che lasciarono via libera a due contendenti: i residenti arabi e gli immigrati ebrei. Il 14 maggio del 1948 a Tel Aviv Ben Gurion fonda lo Stato ebraico i cui confini giungevano fino in Galilea e si arrestavano sotto le mura di Gerusalemme che era ancor sotto il controllo giordano. Nel 1956 una seconda guerra arabo-israeliana questa volta tra Israele (sostenuto da inglesi e francesi) e l’Egitto, dopo la nazionalizzazione del canale di Suez aprì una nuova ferita alimentado le divisioni e gli odi.
La terza guerra, chiamata la guerra dei sei giorni, nel 1967 portò all’occupazione da parte di Israele dell’intera Cisgiordania, del Sinai, della fascia di Gaza e delle alture del Golan. Ne scaturì una breve tregua, controllata dalle forze militari fino al 1973 quando, nel corso della festa del kippur, scoppierà il nuovo conflitto tra Egitto e Israele. Ci vorranno più di 5 anni per raggiungere, grazie alla mediazione statunitense, un accordo di pace indicato come l’accordo di Camp David; venne firmato anche dal presidente egiziano Sadat, che qualche mese prima aveva fatto visita a Gerusalemme, ma pubblicamente rifiutato dall’Olp (organizzazione per la liberazione della Palestina) guidata da Arafat.
Nel 1982 gli israeliani decidono di entrare militarmente in Libano con un piano per snidare i terroristi palestinesi che continuavano con attentati estenuanti a tenere sotto scacco la popolazione e il governo. L’operazione fece scattare una serie di reazioni a catena che ridussero allo stremo il Libano e lo portarono ad una guerra civile di difficile soluzione; la vicenda si aggravò a causa dei conflitti con la Siria.
La divisione tra Israele e palestinesi si andò così ad inasprirsi ulteriormente. Nel 1993, con la firma degli accordi di Oslo, si aprì uno spiraglio di pace; ma i nodi principali della questione tra i due popoli restarono irrisolti e rimandati a nuovi e possibili negoziati. C’era il desiderio della nascita di uno Stato palestinese indipendente, il ritorno dei profughi, il controllo delle risorse idriche da parte di una autorità sovranazionale e lo status di Gerusalemme come capitale per alcuni, per altri come Città libera è aperta.
Nel 1994 Israele e Giordania firmano un accordo di pace mentre nelle zone dove potrebbe insediarsi il futuro stato palestinese si stabilisce l’autorità nazionale palestinese guidata da Arafat. Si guarda con speranza a questo passo storico ma l’entusiasmo si raffredderà subito perchè il 4 novembre del 1995, durante un comizio a Tel Aviv, il premier israeliano Rabin viene assassinato da un estremista ebreo con l’accusa di connivenza con Arafat. Nei mesi precedenti i due leader erano stati insigniti del Nobel per la pace. L’episodio determina così un nuovo un arresto nel processo di pacificazione. Da li a poco cambierà lo scenario politico bloccando, e di fatto anche l’azione diplomatica, internazionale. Si chiude la porta del dialogo e si avvia così un’azione di difesa e si apre una delle pagine più buie di questo interminabile conflitto.
Nel 2000 Israele si ritira dal Libano che occupava dal 1982; viene creata una zona di sicurezza, una sorta di cuscinetto di protezione, dei confini. Ma questo fa risalire la tensione e nel settembre dello stesso anno scoppia la seconda intifada a causa di una passeggiata, sulla spianata delle moschee del premier israeliano Ariel Sharon, che viene considerata provocatoria. Comincia la stagione di attacchi terroristici, rappresaglie improvvise e azioni solitarie e violente che alimentano l’odio da entrambe le parti. Dalla primavera del 2002 viene avviata così la costruzione di una barriera di protezione con lo scopo di impedire l’ingresso di terroristi palestinesi nel territorio di Israele. Nasce il grande muro controllato anche militarmente. Dopo la morte di Arafat, nel 2004, si svolgono elezioni presidenziali in Palestina e il successore eletto è Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Riprendono timide trattative ma nel 2005 il governo di Sharon decide, in maniera unilaterale, di sgomberare il territorio della Striscia di Gaza occupata dal 1967, lasciando la completa amministrazione ai palestinesi. Il 25 gennaio del 2006 le elezioni politiche in Palestina sanciscono la vittoria del partito armato degli islamisti di Hamas che però non viene riconosciuto dalla comunità internazionale né da Israele e viene avviata un’opera di boicottaggio. Questo unisce di fatto l’enclave islamista antagonista al governo di Hamas e con la cattura del caporale israeliano Shalit, tenuto in ostaggio oltre 5 anni, i palestinesi ottengono il rilascio di oltre un migliaio di prigionieri. Nell’estate del 2006 scoppia la seconda guerra tra Israele e Libano che dura 34 giorni: un’operazione militare su vasta scala attuata dall’esercito israeliano in risposta agli attacchi iniziati nei primi di luglio da parte degli hezbollah libanesi. Si inasprisce così la crisi di Gaza mentre Israele stringe la Striscia con un durissimo embargo impedendo l’apertura dei confini compreso quello di Rafah con l’Egitto.
Questa nuova fase del conflitto ha posto la Striscia di Gaza al centro di una lunga e dolorosa guerra e di ripetuti attacchi praticamente avvenuti senza tregua fino al 2022 e che hanno causato una scia di distruzione e migliaia di morti, soprattutto tra la popolazione civile. Per dare l’idea di quanto siano stati sanguinosi i blitz militari, basta sapere che soltanto l’operazione “Margine di protezione”, lanciata ad agosto 2014 ha causato 2.300 morti tra i palestinesi civili, tra cui 500 bambini, nonché 69 vittime tra i soldati israeliani e oltre 11.000 feriti.
La Presidenza americana di George Bush jr più di tutte ha spinto per raggiungere la pace: in particolare il vertice di Annapolis aveva avuto l’obiettivo di riaprire i colloqui tra Israele e Palestina, ma con l’avvento di Benjamin Netanyahu e dei suoi alleati della destra oltranzista lo scenario politico in Israele è cambiato nuovamente e le speranze di pace si sono nuovamente congelate.
Soprattutto la politica degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi è diventata sempre più aggressiva e di ostacolo, anche ingombrante, al processo di pace.
In particolare, alla fine del 2014 il consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha respinto una risoluzione della Giordania nella quale si chiedeva di porre fine all’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele entro il 2017. Altrettanto respinta è stata la proposta di ripresa dei negoziati, nel tentativo di tornare allo schema dei “due Stati” seguendo i confini tracciati nel 1967 per delineare il futuro stato palestinese. Altra ragione che ha inibito la realizzazione di un concreto processo di pace è stata la poca stabilità politica in Israele, che ha portato gli ebrei per cinque volte alle urne dal 2019 al 2022 e che non ha permesso uno stabile lavoro diplomatico.
Nel 2022 si è insediato il sesto governo guidato da Benjamin Netanyahu, il più longevo premier d’israele, attivo in politica nel Paese dal 2006. Tra le dichiarazioni più controverse dette in quasi quindici anni, l’attuale premier israeliano ha dichiarato che la popolazione palestinese non va alle urne perché non vengono indette le elezioni presidenziali. In particolare, attualmente in Palestina, il capo dello Stato è il presidente Mahmoud Abbas, mentre il governo è guidato dal premier Mohammad Shtayyeh. Di fatto, però, Hamas ha il controllo della striscia di Gaza.
Gli ultimi anni sono stati segnati da continui attentati terroristici che hanno insanguinato questo territorio già tanto martoriato. Durante il proprio mandato da presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva cercato un nuovo approccio per risolvere il conflitto in Terra Santa, ma il piano, elaborato dalla Casa Bianca e presentato nel gennaio del 2020, non era stato convintamente sostenuto dagli israeliani e, anzi, era stato completamente rigettato dai palestinesi, irrigiditi per il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Washington nel 2017.
Avevano avuto successo invece gli accordi di Abramo nel 2020 per una collaborazione tra Israele e i paesi musulmani, in particolare con Emirati arabi Uniti, Sudan e Marocco.
Per quanto riguarda l’impegno portato avanti dalla Santa Sede, tutti i pontefici si sono impegnati con costanza in questo ultimo mezzo secolo per la risoluzione della questione tra Israele e Palestina. Per restare soltanto alle vicende più recenti, l’attuale pontefice, Papa Francesco, non sta smettendo di richiamare alla responsabilità e a un immediato cessate il fuoco tra le due parti. La condanna, inequivocabile e irrevocabile, dell’inumano attacco terroristico perpetrato da Hamas il 7 ottobre contro civili innocenti e la profonda preoccupazione per la catastrofica situazione umanitaria nella Striscia di Gaza, che ha causato la perdita di migliaia di vite innocenti palestinesi, tra cui più di 5.000 bambini: questi sono i sentimenti espressi dall’arcivescovo Ettore Balestrero, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali, a Ginevra, in occasione della 74.ma Sessione Esecutiva dell’Unctad, Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, sul tema dell’assistenza al popolo palestinese.
“La Santa Sede rimane pienamente impegnata a promuovere la pace e la giustizia in Israele e Palestina”, ha spiegato Balestrero, ricordando l’uccisione e il ferimento brutale di migliaia di persone e la presenza di centinaia di ostaggi, inclusi bambini e anziani. Balestrero quindi ha rivolto il proprio pensiero al sacrificio di oltre cento membri del personale dell’Unrwa uccisi a Gaza nelle ultime settimane, ringraziando al tempo stesso l’Unctad per l’assistenza ai palestinesi. Nel proprio intervento a Ginevra, il delegato vaticano ha ribadito l’appello del Papa per l’immediato rilascio di tutti gli ostaggi detenuti a Gaza, sottolineando come il terrorismo e l’estremismo alimentino l’odio, la violenza e la vendetta, causando sofferenze reciproche. Balestrero ha aggiunto come la Santa Sede sostenga il diritto alla legittima difesa, ma sempre conformandosi al diritto internazionale umanitario, compreso il principio di proporzionalità. Il delegato vaticano ha ribadito come la sofferenza indiscriminata della popolazione palestinese sia inaccettabile e ha chiesto la protezione efficace di ogni singolo civile, sollecitando altresì a garantire l’accesso all’assistenza umanitaria.
In chiusura, monsignor Balestrero ha rinnovato l’appello di papa Francesco affinché tutte le parti cessino immediatamente di utilizzare armi, poiché ogni guerra è una sconfitta e ha sollecitato le autorità israeliane e palestinesi a rinnovare con coraggio il loro impegno per una pace basata sulla giustizia, nel rispetto delle legittime aspirazioni di entrambe le parti.
Il dialogo, per quanto possa sembrare limitato, è l’unica soluzione pratica per porre fine a lungo termine alla violenza in atto nella regione e raggiungere una pace che vede, quale opzione valida per la Santa Sede, una soluzione a due Stati. Non è un caso, quindi, che l’intervento del presule si sia concluso con le parole del Papa affinché si fermi l’uso delle armi che non porteranno mai alla pace.
Ad oggi i morti sono 18mila tra i palestinesi e quasi 50mila feriti; tra gli israeliani, al netto della giornata del terrore, sono stati uccisi 433 soldati e 1645 feriti. Nel corso della breve tregua sono stati rilasciati 50 ostaggi israeliani; ne restano in mano ad Hamas 137. L’ultimo Consiglio di sicurezza dell’Onu, per un cessate il fuoco, si è chiuso con gli Stati Uniti che hanno posto il veto alla risoluzione che era stata sostenuta dalla stragrande maggioranza del Consiglio di Sicurezza.
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