L’Istat conferma la grande frenata dell’economia italiana: occupati in calo nel terzo trimestre
L'Istituto di statistica rileva per ottobre una diminuzione del fatturato industriale (-0,5%, rispetto al mese precedente) e degli ordinativi (-0,3%), un dato significativo anche in prospettiva. Quanto all'andamento dell'inflazione, a novembre l'indice dei prezzi al consumo scende dello 0,2 rispetto a ottobre, un calo che documenta non solo la mancata ripresa dei consumi, ma anche il loro rallentamento.
Gli ultimi dati Istat confermano la grande frenata dell’economia italiana, proprio mentre la Banca centrale europea rivede al ribasso le stime di crescita dell’insieme dell’Eurozona. In Italia, l’Istituto di statistica rileva per ottobre una diminuzione del fatturato industriale (-0,5%, rispetto al mese precedente) e degli ordinativi (-0,3%), un dato significativo anche in prospettiva. Quanto all’andamento dell’inflazione, a novembre l’indice dei prezzi al consumo scende dello 0,2 rispetto a ottobre, un calo che documenta non solo la mancata ripresa dei consumi, ma anche il loro rallentamento.
I dati proiettano sull’ultimo trimestre dell’anno i segnali negativi che erano emersi in relazione al periodo luglio-settembre, in particolare lo “zero” registrato dalla crescita del Pil, il prodotto interno lordo, l’indice che convenzionalmente misura la ricchezza di un Paese. Il più recente di questi segnali relativi al terzo trimestre – il dato è stato diffuso dall’Istat pochi giorni fa – è la diminuzione degli occupati (-0,2%): non accadeva dal primo trimestre del 2015.
Naturalmente la lettura e l’interpretazione dei dati richiede sempre molta attenzione. A proposito del fatturato e degli ordinativi dell’industria, per esempio, il confronto con ottobre 2017 – quindi su base annuale – è in positivo per il 2%. L’inflazione su base annuale è stabile (1,6%), un decimale in meno, comunque, della stima preliminare diffusa sempre dall’Istituto di statistica. Ma è proprio la convergenza di dati negativi nell’ultimo periodo a rappresentare quello “sfiorire della ripresa” che secondo il Censis è una delle cause dell’incattivimento della società italiana. Proprio nel corso della presentazione del 52° Rapporto sulla situazione del Paese, il direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii, aveva messo rigorosamente in fila tutti gli indicatori economici di questo ormai famigerato terzo trimestre 2018: “il Pil ristagna”; “i consumi delle famiglie non ripartono”; “l’indice della produzione industriale ha cominciato a flettere”; “anche l’export, che è stato il principale fattore della ripresa, ha notevolmente rallentato”; “la dinamica delle retribuzioni rimane bassissima” e tiene al palo la “domanda interna”, come dimostra anche l’andamento dell’inflazione; “gli investimenti delle imprese sono scivolati in campo negativo”. Manca il dato sull’occupazione, ma soltanto perché l’Istat lo ha reso noto successivamente e, come si diceva, è un elemento in linea con gli altri. Purtroppo.
Il fatto che anche il contesto economico internazionale segnali un rallentamento complessivo complica ulteriormente la situazione.
Anche senza addentrarsi nell’analisi dei rischi di una nuova recessione globale, è evidente l’impatto negativo per un Paese, come l’Italia, che negli ultimi anni ha costruito la sua pur modesta ripresa quasi esclusivamente sulle esportazioni. Un settore in cui la mappa per regioni, diffusa dall’Istat sempre in questi giorni, riserva alcune sorprese. Le regioni più dinamiche, infatti, risultano il Molise (+40,8%), la Calabria (+21,7%) e la Basilicata (+18,2%). Più in generale le esportazioni di Mezzogiorno e Isole (+4,3%), superano nettamente quelle delle altre macroaree: Nord-Ovest (+2,9%), Centro (+0,7%) e Nord-Est (+0,2%). Ma la crescita dell’export meridionale è dovuta in larga misura ai prodotti energetici: è grazie al petrolio che, a livello provinciale, Siracusa si colloca subito dopo Milano, Asti e Brescia.
I “conti economici territoriali”, proposti dall’Istat in questo scorcio d’anno, confermano invece che il differenziale negativo del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord resta ampio: il Pil pro-capite è inferiore del 45%. Uno scarto che trova riscontro anche nelle retribuzioni nel settore privato, con la paga oraria media più alta in Lombardia (12,02 euro) e la più bassa in Campania (10,10 euro). Ma più ancora che un problema di reddito – da valutare concretamente nei diversi contesti in rapporto al costo della vita – la grande questione del Sud è quella del lavoro. Continua incessante l’emigrazione verso il Nord (e in parte anche verso l’estero). Negli ultimi vent’anni, rileva l’Istat, la perdita netta di popolazione del Mezzogiorno, dovuta ai movimenti interni, è stata pari a 1 milione e 174 mila unità. E la metà dei trasferimenti (49,5%) riguarda persone tra i 15 e i 39 anni.
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