Una gran voglia di barriere
Tanti ostacoli, dagli Stati, alla circolazione delle merci.
Sessantaquattro sono i muri esistenti al mondo per dividere o per escludere popoli: qualcuno s’è preso la briga di contarli – da Cipro alla Palestina, dal confine Usa-Messico alla fresca barriera Ungheria-Serbia – sapendo pure che la contabilità sarà da aggiornare a breve. Ovunque nel mondo prospera la tentazione di alzare barriere fisiche, di innalzare nuovi muri. In un pianeta in cui si può volare ovunque, diventa sempre più difficile muoversi se non dotati di passaporto, visto e biglietto aereo.
Si torna all’antico, ai confini, ai controlli, dopo anni in cui l’umanità ha cercato di abbattere le barriere. Cosa riuscita soprattutto per le merci, rispetto agli antichi dazi doganali: la nostra corta memoria non ci fa rammentare che ne esistevano pure per le merci che, ad inizio Novecento, transitavano dall’Abruzzo al Lazio, dalla provincia di Rieti a quella di Roma. Insomma la famosa globalizzazione, col paradosso attuale che è più facile per una scatola di fagioli transitare da un continente all’altro, che per una persona passare attraverso gli Stati dell’ex Jugoslavia.
Ma anche per le merci c’è tanta voglia di tornare all’antico, classica reazione di quando le cose virano al peggio. La globalizzazione ha arricchito alcuni Paesi del Secondo e Terzo mondo, ma ha nel contempo impoverito quelli che viaggiavano in prima classe. Si sono spostate le fabbriche da qui a lì, poi alcuni settori del terziario, quindi l’acquisto di grosse realtà occidentali da parte di indiani, cinesi, arabi…
Da una simile situazione sta montando una specie di reazione avversa: insofferenza verso chi delocalizza all’estero; tentativi di far ritornare in patria le aziende fuoriuscite; la continua richiesta da parte delle categorie economiche nazionali (in Francia la pressione è fortissima) per frapporre ostacoli alle merci provenienti da Paesi accusati di dumping di vario genere: costo del lavoro eccessivamente basso; uso di prodotti e metodologie vietate in Occidente; aiuti di Stato che nell’Ue non sono permessi; standard qualitativi ritenuti non accettabili; esaltazione dei vari “made in”, e via andare.
Una voglia di barriere alla circolazione delle merci che interessa sempre più prodotti e servizi: dal miele ai giocattoli, dalla salsa di pomodoro alla tecnologia. Così gli americani si mettono di traverso ai telefonini cinesi, per la paura che le telefonate possano essere intercettate da Pechino; i cinesi mettono ostacoli alle internet companies americane, perché la libera comunicazione non è lì accettata; gli islandesi boicottano i prodotti israeliani per questioni ideologiche; l’Ue chiude le porte ai russi per questioni politiche; i russi mettono i bastoni tra le ruote a qualsiasi progetto di trasporto del metano che li escluda…
Se insomma la fine del Novecento ha visto l’abbattimento del muro di Berlino e la cancellazione della Cortina di ferro, l’ingresso della Cina nel libero mercato mondiale e l’apertura di molti Paesi all’economia di mercato, questo secondo decennio del Duemila sta invertendo decisamente la rotta. Un mondo forse non preparato ad essere “aperto”, sta reagendo chiudendosi dentro confini, dietro muri e barriere. Nell’illusione che un dazio o del filo spinato sapranno respingere la Storia e il progresso.
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