Chiese di Calabria
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La catechesi di Mandato all'incontro dei Terz'Ordini regionali

"Guardare con curiosità, attenzione e speranza al vangelo di Gesù. Le fraternità laicali in cammino sinodale".

La catechesi di Mandato all'incontro dei Terz'Ordini regionali

Ecc.mo Mons. Giovanni Checchinato,

Rev.mi Sacerdoti,

Rev. Correttore Provinciale padre Francesco Trebisonda,

Rev. Padre Domenico Crupi, cerimoniere del Santuario,

Gent.mi Ministri dei Terz’Ordini presenti,

 

FM

è con cuore sincero che saluto ciascuno di voi in questa bella occasione, nella quale riflettiamo, nel tempo sinodale, sulle nostre fraternità in cammino. La II giornata dei Terz’Ordini delle Chiese di Calabria ci consente di ritrovarci insieme a condividere, pur nella diversità dei nostri carismi e dei nostri cammini, esperienze, speranze e prospettive per il nostro lavoro pastorale a servizio dell’unico Signore.

Il santuario regionale di san Francesco di Paola, nel quale siamo convenuti per il nostro ‘sinodare’, si ripresenta anche oggi come luogo ‘del cuore’, oasi di spiritualità rigenerante dove incontrare il Patrono, al quale affidare, all’inizio del nuovo anno ecclesiale, le gioie, le attese e i sogni che, come Terz’Ordini, desideriamo portare avanti.

Ringrazio i padri Minimi, nelle persone di padre Trebisonda e padre Domenico Crupi, per l’ospitalità, l’accoglienza e l’occasione di incontrarci che oggi mi è data.

Abbiamo, come già accennato poc’anzi, una necessità per noi costitutiva di incontrarci, di fare famiglia, sia all’interno dei gruppi ecclesiali in cui siamo attivi che all’esterno, ai contesti prossimi e man mano più remoti dalle nostre esperienze. Per questo, dobbiamo – per quanto possibile - dissipare “liti e gelosie”, come esorta l’apostolo Paolo nel rivolgersi alla irrequieta comunità di Corinto (1Cor 1,3). L’armonia, anzi, come diremo fra breve, la “sintonia – sinfonia” non mortifica i carismi e le legittime diversità, ma è la comune meta verso cui camminare, ben consapevoli che è “una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati” (Ef 4,4).

Scusandomi per l’intrusione, direi a questo punto che i vostri Statuti, le vostre nobili e belle professioni di fede, sono garantite dalla ragione del nostro cammino, che è sempre il Signore, perché – scrive Paolo ai Romani – “fine della legge è Cristo” (Rm 9,4), laddove “fine” può essere interpretato come “il fine” e “la fine”, ovvero il compimento.

Poiché tuttavia ogni convenire ecclesiale trae aiuto, sostegno e forza dalla parola di Dio, ritengo essenziale fondare questo esercizio di meditazione su un brano del Vangelo. Rifletteremo sulla pericope del vangelo di Matteo al capitolo 20, dal versetto 1 al versetto 16. La scelta del vangelo matteano è dettata anzitutto dal fatto che ci troviamo nell’anno liturgico A, ma anche – se mi è concesso – da una particolare personale attenzione che pongo a questo scritto. Non ho certamente la pretesa, il tempo non ce lo consentirebbe, di compiere un’esegesi minuziosa e puntuale di ogni termine o di ogni versetto di questo brano. Vogliamo piuttosto porci in ascolto della parola del Signore, e trarre da essa qualche spunto per la nostra vita spirituale e per il cammino che vogliamo compiere come Terz’Ordini delle Chiese che sono in Calabria.

Procedo a una lettura del brano evangelico.

 

Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna.

2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna.

3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati,

4e disse loro: "Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò".

5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto.

6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: "Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?".

7Gli risposero: "Perché nessuno ci ha presi a giornata". Ed egli disse loro: "Andate anche voi nella vigna".

8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: "Chiama i lavoratori e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi".

9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro.

10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro.

11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone

12dicendo: "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo".

13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: "Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro?

14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te:

15non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”.

16Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi".

 

Ci troviamo nel capitolo 20 del vangelo di Matteo, dunque tra il “discorso ecclesiale o ecclesiologico” del capitolo 18 e quello escatologico del capitolo 25, per quanto la ripartizione in cinque grandi discorsi dello scritto matteano oggi sia considerata meno netta, dovendosi il ‘katà Mattaion’ organizzarsi nell’ambito di una più articolata strutturazione. Pur senza perderci in tali questioni, rimane il grande sfondo di stampo ecclesiale o di vita comunitaria di questa pericope, un insegnamento che può essere utile anche a voi membri dei Terz’Ordini.

Matteo 20,1-16 è una unità ben distinta all’interno di una sezione più ampia in cui si afferma, tra le altre realtà “l’agire di Dio Padre”, e che termina con la terza predizione della sua Passione da parte del Signore. Il fatto stesso che l’evangelista descriva l’agire del Padre è già per noi un grande indicatore per farci prendere consapevolezza che il vostro essere Terz’Ordine, il nostro essere Chiesa, è sempre dinamico, richiede movimento, sia del cuore che della mente. Siamo membri attivi della pastorale della nostra fraternità, della comunità parrocchiale ed ecclesiale in cui siamo inseriti, sapendo di dover testimoniare dapprima con i fatti e poi, se necessario, per richiamare il Poverello d’Assisi, con le parole.

Il brano che stiamo meditando trattasi, è opportuno sottolinearlo, di una parabola, dunque di un racconto utilizzato da Gesù da cui trarre un insegnamento, valido tanto per gli interlocutori dell’epoca che per noi oggi, per quanti quest’oggi siamo qui. Non ci si sofferma, invece, sulla riconducibilità o meno della parabola alla viva vox Jesu, materia comunque di indagine nell’ambito della più recente ricerca sul Gesù storico (si rimanda a Fusco e Meier).

La congiunzione coordinante esplicativa gar, ‘infatti’, che si trova all’inizio della pericope, dice il legame dell’inizio del capitolo 20 con la conclusione del capitolo 19, per quanto si tratti di una coniunctio debole, perché Mt 20,1-16 starebbe in piedi da solo. Il brano precedente, infatti, si concludeva con l’espressione letteralmente traducibile così: “ma molti saranno primi ultimi e ultimi primi”.

Fissato, sia pure sommariamente, il contesto più prossimo entro cui si pone Mt 20,1-16, appare opportuno individuare, in una prima conclusione, non esaustiva, il contesto remoto, ovvero come questo brano si inserisce nel più grande progetto matteano. Per farlo, tuttavia, occorre, quasi imitando gli ‘ultimi’ del vangelo, compiere un atto di proskynesis, di abbassamento e soffermarsi a meditare la lettera del testo.

Il brano di Mt 20,1-16 descrive la basileìa tòn ouranòn, il regno dei cieli. Questa è la destinazione che l’evangelista propone ai suoi lettori, e che a ben vedere è una meta alla quale tutti siamo chiamati ad anelare. Il riferimento al cielo è pregnante, perché ci dice la sede di Dio, egli che è il Padre che è nei cieli, per come affermato anche nella preghiera del Padre nostro.

Ricorre per quattro volte, nell’atto della chiamata dei salariati, il verbo èx-èrkomai, che richiama l’uscita del padrone della vigna lungo le ore della giornata: anche questo verbo per noi può essere una bella suggestione, perché ci ricorda l’immagine della Chiesa in uscita, direi di fraternità che non stanno chiuse ripiegate su stesse, ma si aprono.

Se notiamo la lettera del testo, vediamo come detto verbo si accompagna sempre a un’indicazione temporale, il che dice ancora una volta la concretezza dell’agire, e dell’agire ecclesiale, che si snoda lungo l’arco della giornata, potremmo dire per tutta la vita, con i ritmi dettati dalla volontà di Dio.

Il terzo termine che richiamo è misthos, che significa ‘ricompensa’. Il brano evangelico descrive la ricompensa che il padrone della vigna dà ai suoi salariati. La nostra Costituzione repubblicana afferma: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato” (art. 36). Ma qui il lavoratore della prima ora prende lo stesso salario di quello che ha lavorato un’ora soltanto. È in gioco il rispetto della giustizia!

‘Giustizia’ è uno dei termini chiave del vangelo di Matteo. Già adombrata nella prima parte del discorso del monte (Mt 5), laddove è promesso il regno dei Cieli alle categorie dei poveri in spirito, dei miti, di quanti sono assetati, ai perseguitati, ha il suo culmine nel discorso medesimo, per come riportato al cap. 6,33: “cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia”. In quel frangente, ritrovare il tema della giustizia, invero teologico, non è difficile: “state attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini”, “altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli” (6,1). Alla ricerca della giustizia è immediatamente connesso quello della ricompensa, che è fondamentale, per quanto sorprendente nelle sue modalità esplicative, proprio al cap. 20, che stiamo esaminando.

La narrazione è chiara, ci pone dinanzi a delle persone che vengono chiamate a lavorare nella vigna da parte del padrone. Alcuni lavorano dalla mattina, tutto il giorno, avendo concordato con il padrone per un denaro, altri vengono chiamati a quella che può identificarsi “l’undicesima” ora, e dunque faticano un’ora soltanto. Arrivato il momento del misthòs, del salario, il padrone della vigna dà a tutti un denaro, senza fare distinzioni.

Al più giustizialista dei lavoratori questo provoca sconcerto, sentirà violati i suoi diritti legittimi, si chiederà perché abbia dovuto lavorare così tanto per poi prendere la stessa ricompensa dell’ultimo arrivato. Ha faticato sotto il sole, ha avuto pazienza, magari s’è dovuto pure fermare perché era stanco. Non come il lavoratore sottratto all’ultimo crocicchio di strada, che invece ha portato a casa lo stesso un denarion,si direbbe ‘senza aver fatto quasi niente’.

A qualche altro lavoratore, più che sconcerto, avrà provocato curiosità, avrà chiesto al padrone della vigna il perché di questa scelta. Perché di questo si tratta: mentre con i primi chiamati il proprietario ha concordato, sinfonicamente, la retribuzione del lavoro, con gli altri no, perché ha deciso direttamente lui. Sale la mormorazione (il verbo di riferimento, goggùzzo, dice tutto il dinamismo del sentimento degli interlocutori di Gesù), probabilmente anche l’invidia, che letteralmente significa “non posso vedere l’altro”. Esattamente il contrario del fare ‘sinodo’, che è piuttosto ‘voglio ascoltare’, ‘voglio vedere’, ‘voglio empatizzare e simpatizzare’. 

L’invidia, però, ha come risvolto una chiusura dello spazio vitale dell’amore, mentre la gioia genera spazio, perché condividere è ‘far entrare’.

Ancora un rimando al contesto remoto: se il padrone della vigna, che è il Signore, decide la ricompensa, vige il grande e difficile tema della volontà di Dio, spesso imperscrutabile e difficile da cogliere, ma sorprendente. Sì, perché le domande e le risposte del Signore superano sempre le nostre domande e le nostre risposte, rompono gli schemi, si fanno scandalo per chi ha l’intima presunzione di essere nel giusto (cf. Lc 18,9) e di essere depositario della verità. Ma c’è un altro tema teologico caro al vangelo di Matteo che qui risale sotto forma di parabola: “oppure sei invidioso perché io sono buono?”. Il Signore è buono – come già rilevavano i salmisti (cf. Sal 102) – e lo è perché “fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45), mentre noi spesso rischiamo di entrare con tutti e due i piedi nella tentazione sempre all’erta di farci nemici, fare prigionieri, anzi di escludere – non accompagnare ma lasciare indietro – mormorare contro, così da dimenticarci di quella bellissima parola paolina “gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10). Piuttosto, una fraternità in cammino è icona dell’amore reciproco, per riprendere lo stesso versetto della lettera ai Romani, il che implica porgere l’altra guancia, dare anche il mantello a chi chiede la tunica, fare un miglio in più con il fratello in difficoltà (Mt 5-7).

Nel 2008, nella diocesi di Cosenza - Bisignano, è nata una nuova esperienza giornalistica, quella del settimanale diocesano “Parola di Vita”, che si inseriva nel più ampio progetto di valorizzazione delle testate giornalistiche diocesane attive o da far nascere in tutta Italia. Un avamposto di missione per la Chiesa che muoveva i primi passi nel Terzo Millennio e che voleva farsi voce dei territori. Partecipai al corso di formazione che si tenne nel gennaio 2008 in vista dell’uscita del primo numero, che effettivamente fu dato alle stampe il 23 aprile successivo.

Eravamo un nutritissimo gruppo di partecipanti al corso, come spesso accade. Un po’ l’entusiasmo iniziale, un po’ la voglia di capire di che si trattasse, se fosse un lavoro vero e una prospettiva o solo un possibile passatempo. Quando nasce qualcosa di nuovo ci sono sempre gli ‘entusiasti’, ci sono anche nelle tante esperienze di movimenti ecclesiali. Fatto sta che arrivò il momento delle prime uscite, e partecipai, peraltro con un articolo su un’associazione cosentina e un altro sulla squadra di calcio del Cosenza. Dal 2010 venni chiamato a rivestire il compito di redattore, dovrei dire il dono di redattore, cosa che tutt’ora mi impegna, occupandomi dapprima delle pagine cittadine poi precipuamente di quelle legate all’attività ecclesiale della diocesi. Il giornale, soprattutto nei primi anni, è stata un’esperienza di fraternità e di condivisione, perché si trascorrevano molte ore insieme, si pranzava insieme, si beveva finanche il tè alla stessa ora che gli inglesi consacrano a questa bevanda.

Dal 2010 a oggi i redattori sono cambiati tutti, tranne me, perché ognuno ha trovato e scelto strade diverse, traiettorie donate dalla vita. Nel tempo sono arrivati nuovi collaboratori, giovani e meno giovani che nel cuore avevano il sogno del giornalismo e di un lavoro bello, per quanto faticoso. Al di là dello stipendio o meno – perché non è lo stipendio a definire o meno la gratuità di un servizio ecclesiale – l’esperienza di Parola di Vita è per me anzitutto condivisione di un cammino di vita e di Chiesa, luogo possibile di incontro, confronto e condivisione senza secondi fini e senza pretese, circolazione di esperienze. È un evento concreto che investe storie personali che incontrano soddisfazione nel lavoro appassionato e nella testimonianza resa insieme agli altri. Così immagino una fraternità ecclesiale, così credo che dobbiamo sognarla.

Mi sia permesso ancora di riportare la mia esperienza, a titolo di esempio. Il giornale diocesano è un crocevia di volti in cui il collaboratore appena arrivato condivide gli stessi spazi, la stessa fatica, la stessa gioia di chi è in redazione da tre o cinque o dieci o, come nel mio caso, da tredici anni. Il frutto concreto del lavoro non sono solo – ma anche – le 24 pagine di giornale: è la telefonata di ringraziamento, è un incontro nuovo, è un evento al quale si vorrà partecipare, è anche la critica che sprona a fare meglio.

Quella del giornale mi sembra una piccola parafrasi della parabola dei lavoratori nella vigna, è un’esperienza di ekklesìa, cioè di chiamati a condividere un luogo fisico, un luogo del cuore, un progetto, una soddisfazione: a tutti lo stesso salario, la stessa ricompensa, la stessa partecipazione. Così gli ultimi come i primi.

Credo che questo debbano essere le vostre fraternità, che questa sia la bellezza di un carisma condiviso, cioè di un dono che non è mai “tesoro geloso da rapire per sé”, per citare il bellissimo inno cristologico pre-paolino di Fil 2,6-11, ma “lingua di fuoco” da effondere.

Per questo, agganciandomi al titolo di questa giornata, occorre curiosità e attenzione. Avrei potuto scegliere la vicenda di Zaccheo (Lc 19,1-10), paradigmatica dell’interesse curioso di chi cerca di vedere il Signore tanto da arrampicarsi su un albero, ma Zaccheo è uno solo, mentre noi vogliamo ‘sinodare’, camminare insieme, non pestare i piedi all’ultimo dei lavoratori chiamati, all’ultimo che ha professato e che ha indossato lo scapolare, ma includerlo in un cammino, come se fosse il primo dei chiamati. Senza avere paura delle attenzioni che il padrone della vigna rivolge al più piccolo tra i salariati, quasi un’immagine dell’amore che Gesù aveva per il discepolo Giovanni. Essere curiosi e attenti significa anzitutto, con lo stile evangelico del Signore, cercare il fratello, farci a lui fraterni, riconoscere che anch’egli è “suolo santo” (Es 3,5), ascoltarlo, valorizzarlo, renderlo membro della famiglia.  Come realizzarlo, è ancora la Scrittura a dirlo: “tutto ciò sia fatto con dolcezza e magnanimità” (1Pt 3,16).

Certo, non esiste una comunità, sia pure piccola, nella quale non ci siano dolori, incomprensioni, dialoghi faticosi, ma la legittima diversità delle sensibilità, del cammino già percorso o magari nemmeno intrapreso sono la via possibile di un incontro, di una nuova sinfonia. Direi, utilizzando ancora l’altra parola che gli organizzatori ci hanno consegnato: di una nuova speranza. Perché se si discerne insieme, se si progetta e si realizza nella condivisione, anche partendo dai nostri fondatori, dalle nostre Regole, sempre vive e attuali, allora Dio trova ancor di più il terreno fertile per le sue sorprese.

 

Grato dell’incontro odierno.

 

Fabio Mandato

(fabiomandato84@gmail.com)

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