Questi gioielli hanno lasciato il Sud Italia come l’ascia votiva di San Sosti e difficilmente vi torneranno
Il Tesoro di Sant’Eufemia
Una preziosa raccolta di reperti della cultura calabrese è custodita presso il British Museum
Una splendida collezione di cimeli dorati, appartenente alla tradizione culturale calabrese, è custodita presso il British Museum. Stiamo parlando del “tesoro di Sant’Eufemia”, il “più grande e importante ritrovamento di oreficeria della Magna Grecia” del IV secolo a.C., come l’ha definito l’archeologo inglese Dyfri Williams, specializzato in cultura dell’antica Grecia. Non è la prima volta che reperti archeologici della Calabria si ritrovano conservati ed esposti in uno dei musei più prestigiosi al mondo, a chilometri e chilometri di distanza dal Sud Italia. Un altro caso esemplare, per esempio, è quello dell’ascia votiva di San Sosti custodito sempre nel British Museum. Il tesoro di Sant’Eufemia è collocato attualmente in una delle teche centrali della Sala 73 al terzo piano del museo londinese, una sezione dedicata agli oggetti appartenenti alla storia della Magna Grecia. Esso è nato dalla maestria degli orafi greci, esperti di lavorazioni complesse e delicate come martellatura, filigrana, granulazione e cesellatura. È costituito da gioielli e monili in oro datati intorno al 300 a.C. e identificabili come ornamenti femminili. Questa luccicante raccolta di articoli storici è stata rinvenuta casualmente in contrada Terravecchia nella piana di Sant’Eufemia, nell’area centrale tirrenica calabrese. Ci sono svariate narrazioni circa la sua scoperta. Secondo la versione più accreditata un tale Giovanni Giudice (il “Qualaro” o “cretino”) trovò per caso degli oggetti scintillanti in un solco profondo scavato dalla pioggia torrenziale, in contrada Elemosina a Sant’Eufemia Vetere, la mattina dell’8 aprile 1865. Li mostrò a due compaesani, Francesco Montesanti e Antonio Zarra, che lo raggirarono per cercare di accaparrarsi il prezioso bottino in cambio di pochi fichi secchi. Giunti sul luogo i due recuperarono altri oggetti e consegnarono tutto ad una guardia campestre del fondo, che reperì altri pezzi. Temendo ripercussioni da parte del suo padrone, la guardia distrusse molti reperti per poterli rivendere come oro fuso. Poco tempo dopo il proprietario del terreno, Pasquale Francica, venne a sapere della scoperta e cercò di recuperare il tesoro, riuscendo però a mettere mano solo a pochi pezzi visto che il resto era stato fuso. Un’altra versione della storia parla di un opuscolo redatto da Antonio Francica, erede di Pasquale, nel quale si narra di due contadini che si imbatterono, dopo una notte di pioggia, in un sepolcro da cui erano fuoriusciti dei tesori preziosi. Il custode del fondo fece scavare e trovò altri manufatti, tenendo Francica all’oscuro di tutto e rivendendo i singoli frammenti. L’intero bottino consta di “un diadema, parti di due o tre collane, terminali di un paio di orecchini a spirale, pezzi di alcune cinture, un anello e frammenti di altri ornamenti appartenenti ad una o più donne ricche” come ha spiegato lo storico Vincenzo Villella. A questi elementi si aggiungono una serie di monete bronzee come corredo funerario di qualche defunto, una catena in filigrana con un medaglione in oro, sul quale sono visibili simboli della città di Siracusa, altri oggetti dorati e monete bronzee su cui è incisa la testa di Diana con le frecce nella treccia dei capelli, da un lato, e la rappresentazione del fulmine alato con la scritta “Agatocle Basileo” sull’altro. Questi prodotti sarebbero opera di un maestro-artigiano conosciuto come il “Maestro di Sant’Eufemia”, il quale li avrebbe fabbricati nella stessa bottega-laboratorio. Un’altra teoria vuole che la collezione provenga da Taranto, così com’è menzionato nella catalogazione del British Museum che ricollega il tesoro alla città pugliese. Nei documenti storici si parla di questo patrimonio come di “quattro strisce in oro, facenti parte di una corazza, ritte a metà e da una parte tagliate. Quattro strisce d’oro più piccole e molto più sottili. E poi un triangolo in oro con lavori di filigrana che potrebbe essere servito o di frontale al diadema, o di fermaglio alla cintura che sosteneva la spada”. Questi gioielli provengono tutti dall’antica e fiorente colonia magnogreca di Terina, fondata nel 475 a.C. da Crotone per assicurarsi il controllo della costa tirrenica in seguito alla distruzione di Sibari. Per quanto sia incerta la sua localizzazione precisa, gli storici fanno coincidere la città con l’attuale territorio di Lamezia Terme nei pressi di Sant’Eufemia. Citata da Strabone come sito contiguo a Temesa, fondata, secondo Licofrone, nel XIII secolo a.C. dai Greci di ritorno dalla guerra di Troia o dagli Ausoni o dai Pelasgi qualche secolo prima, e ritenuta già esistente da Augusto Placanica ancor prima dell’arrivo dei crotoniati, Terina conobbe il suo massimo splendore tra gli inizi del V e la metà del VI secolo a.C., quando si trovava sotto l’influenza di Crotone. La sua edificazione avvenne nei pressi del mare, nella zona identificata dagli scavi in contrada “Giardini di Renda”, con l’acropoli situata sulle alture di Sant’Eufemia Vetere. Fu sotto il dominio dei Siracusani, fu conquistata dai Lucani, fu controllata dai Brettii nel III secolo a.C., quindi passò nelle mani di Alessandro il Molosso re dell’Epiro per poi ritornare di nuovo in mano brettia, e infine distrutta nel 203 a.C. da Annibale che non riuscì a difenderla nella guerra contro Roma. Vari studiosi come l’assiriologo e numismatico François Lenormant e l’archeologo Paolo Orsi si sono messi sulle tracce di questa città, i cui resti sono riemersi solo nel 1997. La Soprintendenza per i beni archeologici della Calabria a Sant’Eufemia ha dissotterrato una maglia urbana ortogonale rispecchiante i canoni greci, articolata per assi regolari orientati a Nord-Est, divisi da due strade parallele larghe 6 metri che delimitano degli isolati, nei quali fiorirono i centri residenziali destinati ad accogliere abitazioni e luoghi per l’artigianato locale. La potenza e la ricchezza di questo luogo sono testimoniate, per prima cosa, dal conio di monete molto raffinate verso il 480-460 a.C. L’esistenza di questa città è confermata dal reperimento di altri oggetti, come una piccola lamina di bronzo nota come “tabella testamentaria” contenente la divisione di una proprietà, e la scoperta di una tavoletta bronzea del V secolo a.C. con un’iscrizione in alfabeto acheo. In seguito al fortuito rinvenimento il tesoro di Sant’Eufemia fu acquistato dall’antiquario romano Vincenzo Vitaliani, il quale ne vendette una parte al British Museum nel 1896. Per qualcuno si tratta di uno scippo ma in realtà la vendita fu legale. Difficile che ritorni in Calabria, ma si spera almeno che venga custodito nel migliore dei modi e tramandato alle future generazioni.
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