Il linguaggio di papa Francesco
Il docente Salvatore Claudio Sgroi interviene nel dibattito sul modo di esprimersi di papa Francesco.
Già docente presso l’Unical, Salvatore Claudio Sgroi è professore ordinario di Linguistica generale presso l’Università di Catania. Autore di centinaia di articoli e saggi su questa disciplina, ha recentemente pubblicato, per conto della Libreria Editrice Vaticana, il libro “Il linguaggio di papa Francesco” (2016, 18 euro). Si tratta della raccolta di una serie di articoli sulla lingua contemporanea comparsi tra il 2000 e il 2015 per lo più su testate giornalistiche (come il noto giornale on line www.siciliajournal.it, solo per fare un esempio) e rivolti anche a coloro non sono specialisti dell’argomento, grazie a una prosa chiara e divulgativa. I primi capitoli del volume sono incentrati sul particolare modo di esprimersi di papa Francesco ( da qui il titolo) che il professore Sgroi analizza da tempo ritenendo che esso abbia una funzione teorica ed esemplificativa rilevante per gli studi del settore. Poiché parla in italiano pur non essendo italofono papa Francesco è, infatti, diventato un punto di riferimento linguistico per poter fare un confronto con l’italiano del lettore e scoprire che esistono, come si legge nella prefazione: “regole profonde alla base della grammatica inconscia condivide dal nativofono italiano e dal Pontefice allofono”. Insomma, a differenza di chi sostiene che papa Francesco, non essendo italiano madre lingua, commetterebbe grossolani errori grammaticali, Sgroi ritiene invece che sia l’esatto contrario. Intervenuto a Cosenza, nell’ambito della presentazione del libro a cura del Dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione dell’Università della Calabria e della Fondazione Giuliani, l’accademico ci ha spiegato qualcosa di più sul modo di comunicare papa Francesco e, più in generale, sulla lingua italiana contemporanea.
Professore, nel suo libro definisce il Pontefice come un Sommo”Locutore”. Quindi, in buona sostanza, come si “si esprime” Francesco?
Il Papa parla bene, in tutti i sensi: sia per quello che dice che per come lo dice. Usa una forma espressiva accattivante e molto dialogica riuscendo a suscitare nell’altro il desiderio di continuare ad ascoltarlo e di parlare con lui. Il fatto che sia straniero sarebbe potuta essere una difficoltà; in verità conosce bene l’italiano e, può sembrare paradossale ma per chi come me si occupa di linguistica, poterlo studiare ha costituito un’occasione per conoscere meglio la nostra lingua. Egli, infatti, adopera l’italiano con chiarezza e immediatezza di comprensione per l’ascoltatore, usando anche molte espressioni colte e recuperando forme regionali o auliche.
Ci può fare un esempio?
Il papa ha l’indubbia capacità di creare neologismi mettendo a fuoco concetti importanti facendo così in modo che rimangano fortemente impressi nell’ascoltatore. Un esempio è il verbo “misericordiare”. Il Papa, a differenza di quanto era stato detto, pertanto, ben possiede i registri della lingua italiana e ne attiva e realizza strutture anche inedite da confrontare con quelle dei madre lingua. A ciò si aggiunga che il fatto di essere un “Sommo Locutore” lo pone in una situazione particolare perché ogni cosa che lui dice, anche per come la dice diventa un “exemplum".
Quindi ritiene che il suo modo di esprimersi possa avere qualche influenza sui contenuti per l’ascoltatore?
Assolutamente si. I due aspetti si coniugano e si rafforzano vicendevolmente. Perché a volte concetti anche mondo importanti possono venire detti in maniera complicata o, al contrario, banale facendo quindi si che il messaggio non venga completamente recepito da chi ascolta. Invece, lui ha saputo trovare la maniera giusta per esprimersi oggi da Papa così come in passato da cardinale a Buenos Aires. Io stesso, tempo fa ho avuto occasione di tradurre alcune sue omelie e l’immediatezza del suo esprimersi così come la profondità dei concetti espressi sono rimasti immutati.
Il libro, oltre la parte dedicata al linguaggio di Papa Francesco, si dedica anche ai modi di parlare di alcune categorie di parlanti come i giornalisti e anche i politici.
I politici vanno attenzionati perché anche loro sono dei punti di riferimento. Il mio divertissement è consistito nello scoprire le regole grammaticali e sintattiche di alcuni di loro.
Nel suo libro sostiene anche che molti sono portati a vedere “errori” ovunque e così facendo si finisce con il porsi come giudici del modo di scrivere o parlare degli altri senza però comprendere il perché dell’eventuale errore.
In genere, il parlante comune quando sente o legge qualcosa che è diverso dal proprio modo di parlare o scrivere, pensa che gli altri abbiano sbagliato. In realtà, si dovrebbe solo prendere atto che vi è una diversità di espressione. Per esempio, potrebbe trattarsi solo di una diversa sfumatura semantica. Per cui invece di dire che quel modo di parlare o di scrivere, non coincidendo con il nostro, è sbagliato, dovremmo cercare di capirlo meglio. Da qui, appunto, può derivare il riconoscimento che forse gli altri sbagliano nel parlare meno di quel che comunemente siamo portati a pensare.
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