Giustizia è fatta?
A proposito del caso Garlasco.
Non amo commentare le sentenze senza aver letto gli atti processuali da cui scaturiscono, non mi fido delle ricostruzioni fatte sui giornali e soprattutto in televisione, meno ancora dei processi paralleli affidati all’opinione pubblica sulla spinta emotiva di voler trovare “a forza” un colpevole. Cercherò di non smentirmi anche nel caso di Garlasco che, però, con la parola fine scritta dai giudici della Corte di Cassazione, merita una riflessione più ampia, che coinvolge forse il modo di pensare la giustizia nel nostro Paese. Alberto Stasi dovrà scontare 16 annidi carcere per l’omicidio di Chiara Poggi. Questa condanna arriva dopo ben due sentenze di assoluzione (circostanza questa che, in gran parte dei Paesi civili, avrebbe già posto fine a questa vicenda giudiziaria!), una precedente sentenza di Cassazione che ha rinviato nuovamente la vicenda davanti ad un’altra sezione della Corte di Appello che ha emesso poi una sentenza di condanna, confermata dalla Suprema Corte sabato scorso. Quest’ultima sentenza è arrivata dopo le inaspettate e dure parole del procuratore generale della Cassazione contro la sentenza di condanna che ha ritenuto ”inaccettabile”. Chi ha sostenuto l’accusa ha avanzato seri dubbi di legittimità sull’operato dei giudici che avevano condannato Stasi. Ora, questo ragazzo, oggi trentaduenne, a prescindere dal merito della vicenda, la cui ricostruzione non può che essere affidata alle carte processuali, si appresta, dopo otto anni vissuti da imputato e da obiettivo della gogna mediatica, a trascorrerne sedici in galera. Praticamente un’altra vita distrutta. E se la morte di Chiara Poggi è purtroppo da tempo una certezza, la colpevolezza del suo ex fidanzato da oggi sarà accompagnata sempre dal dubbio della sua innocenza. Questa vicenda verrà ricordata come la negazione del sacrosanto principio del “ragionevole dubbio” che è stato istintivo invocare dopo la requisitoria del procuratore Cedrangolo. Quest’ultimo ha smontato la sentenza di condanna della Corte di Appello, ha definito “buonista” la condanna a 16 anni inflitta per un omicidio accostando la pena al concetto di «cerchiobottismo» e, alla fine, ha chiesto di rinviare tutto in appello per l’ennesimo processo da rifare con un’altra sentenza, anch’essa probabilmente che sarebbe stata impugnata di nuovo in Cassazione. A questo “gioco dell’oca”, dinanzi a cui non può essere invocata una seria riforma della giustizia, i giudici della Cassazione hanno detto basta, con una sentenza di condanna. Hanno quindi preferito sconfessare quell’altro principio della civiltà giuridica moderna per cui è meglio un (possibile) colpevole libero che un innocente in galera. Sedici anni sono davvero pochi per un assassinio così efferato, ma sono anche un eternità per un innocente incappato in una amministrazione della giustizia assai discutibile. Giustizia, quindi, è stata davvero fatta?
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