Il libro del nostro direttore sulla 'ndrangheta: le condanne della Chiesa calabrese.
Il libro scritto tra tre sacerdoti, tra cui il direttore Gabrieli che è è uno strumento essenziale per capire cosa è davvero accaduto negli ultimi cento anni nel complesso rapporto instauratosi tra il mondo cattolico e la rappresentazione della fede ottenuta attraverso la devozione nei confronti di Patroni e Patroni di paesi e città. Devozione che ha significato la celebrazione di feste e processioni durante le quali il sacro s'è mischiato al profano lasciando spazio a pericolose infiltrazioni criminali.
GAZZETTA DEL SUD - 10 SETTEMBRE 2017
C'è una chiesa che da oltre un secolo urla il suo sdegno contro le mafie. Un Chiesa che per decenni si è opposta alle pratiche della subcultura criminale attraverso le prese di posizione ed i documenti prodotti dai suoi vescovi. Presuli e preti (non tutti) hanno combattuto la strumentalizzazione della pietà popolare, delle feste di paese, degli appuntamenti religiosi da parte delle cosche della 'ndrangheta. E l'hanno fatto in tempi lontani come testimonia un interessante volume pubblicato dalla Conferenza Episcopale regionale e scritto da tre sacerdoti: Filippo Curatola, Enzo Gabrieli e Giovanni Scarpina. Il libro, che reca la prefazione dell'Arcivescovo di Catanzaro, Vincenzo Bertolone, ha un titolo illuminante ed invocativo: "La 'ndrangheta è l'antivangelo". La pubblicazione
Le manifestazioni di pietà popolare sono divenute momento utile ai mafiosi per ostentare potere e guadagnare ulteriore considerazione tra la gente. E la Chiesa calabrese se n'è accorta nel secondo decennio del Novecento molti anni prima che papa Jorge Bergoglio pronunciasse la sua "scomunica" contro gli uomini della mala. Basta leggere la "Lettera Pastorale della Quaresima" del 1916 dove in embrione, ma con chiarezza, si pongono le basi per una purificazione della pietà popolare. Già allora si individuavano abusi e debolezze nell'azione di evangelizzazione e si chiedeva di ricentrare l'azione pastorale sull'annuncio della Parola e sulla celebrazione dei sacramenti. Fra i punti deboli venivano indicati: le processioni, il ruolo dei padrini, la scarsa formazione del clero del tempo e dei fedeli. Debolezze che i vescovi individueranno anche nei documenti successivi nei quali, gradualmente, ma con sempre più chiarezza, hanno preso pubblicamente le distanze soprattutto da ciò che era connotato come fenomeno mafioso criminale o tentativo di infiltrazione. Nei testi successivi c'è la condanna senza appello della mafia definita "piaga della società (1975) "l'antivangelo" (2014) fino ad arrivare ad affermare che la "'ndrangheta nulla ha a che fare con la Chiesa di Cristo" (2015).
Esiste poi una Lettera collettiva dei vescovi meridionali sui problemi del Mezzogiorno (1948) voluta dall'arcivescovo di Reggio, Antonio Lanza, che è un documento di enorme rilievo storico. Fu sottoscritta da 18 arcivescovi e 55 vescovi e non lasciava margini di manovra a quanti utilizzavano strumentalmente le feste, i riti, i simboli cattolici. D'altronde, monsignor Lanza fu il presule che sottrasse alla "mafia dei pescatori" il predominio fino ad allora indiscusso del trasporto del quadro della Madonna dell'Eremo nella città dello Stretto. Quando Lanza intervenne i pescatori rinunciarono a portare il Quadro e toccò ai giovani dell'Azione cattolica provvedere. Ma la Chiesa calabrese, protagonista di una stagione di coraggiosa assunzione di responsabilità anche sotto la guida di Salvatore Nunnari, vanta l'azione di sacerdoti straordinari come Fortunato Provazza, parroco di Cannavò, che nel lontano 1930 testimoniò contro il boss della zona indicandolo quale autore di un omicidio; di don Italo Calabrò, che negli anni '80 bloccò le celebrazioni della festa patronale a Lazzaro (Reggio Calabria) perché era stato rapito un bambino. "Nel coraggio del suo pastore - gridò don Italo - la gente ritrova il suo coraggio".
La Chiesa calabrese consegna alla storia anche la vita spenta di due pallottole di due sacerdoti: don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallara, uccisi nel 1860 a Reggio perché avevano denunciato gli autori di un feroce delitto.
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