Editoriali
Africa in fuga dalla Corte Penale Internazionale?
Da diverso tempo il Continente è insofferente nei confronti della Cpi. C'è un’opinione condivisa tra i leader del continente africano - soprattutto a seguito dell’arresto e del procedimento penale mosso nei confronti dell’ex presidente ivoriano Laurent Koudou Gbagbo - che vi sia un orientamento palesemente unidirezionale da parte dei giudici dell’Aja. Nell'esprimere un giudizio è indispensabile valutare il tasso di uso della forza presente nei governi africani, così come va considerato che nei processi corruttivi ci sono i corrotti e i corruttori.
Dopo il Sudafrica e il Burundi, anche il governo gambiano ha manifestato l’intenzione, la scorsa settimana, di volersi ritirare dalla Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi). L’annuncio è stato formalizzato in televisione dal portavoce dell’esecutivo di Banjul che ha accusato il Tribunale — peraltro presieduto da una giurista gambiana, Fatou Bensouda —
di non essere equo e di perseguire solo e unicamente i capi di stato africani.
In effetti, già da diverso tempo, l’Africa è insofferente nei confronti della Cpi. Al termine di una riunione straordinaria ad Addis Abeba, convocata il 12 e il 13 ottobre del 2013 per discutere della proposta di alcuni capi di Stato e di governo africani di rinnegare lo Statuto del Tribunale dell’Aja, l’Unione Africana (Ua) avanzò la richiesta che il presidente sudanese Omar Hassan al Bashir, unitamente a Uhuru Kenyatta e William Ruto, rispettivamente presidente e vicepresidente keniani, fossero sottratti alla giurisdizione della Cpi. Da allora è maturata un’opinione condivisa tra i leader del continente africano – soprattutto a seguito dell’arresto e del procedimento penale mosso nei confronti dell’ex presidente ivoriano Laurent Koudou Gbagbo – che vi sia un orientamento palesemente unidirezionale da parte dei giudici dell’Aja.
A questo proposito bisogna riconoscere che, solitamente, i processi elettorali in Africa coinvolgono gruppi di potere e l’esito rispecchia dinamiche regionali o etniche invece che essere espressione di un’alternanza programmatica. Col risultato che i cambiamenti avvengono frequentemente a seguito di guerre civili e colpi di stato (Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Mali, Madagascar, Repubblica Democratica del Congo…). Qualora invece si dovesse riscontrare una discreta stabilità – a volte con evidenti progressi economici come nel caso dell’Angola, Uganda, Ruanda, Camerun…; in altri casi con la stagnazione sociale e l’implosione economica: Eritrea docet, per non parlare dello Zimbabwe – l’azione di governo è sempre saldamente in mano a regimi che resistono all’usura del tempo per l’appoggio incondizionato delle forze armate. Ecco che allora sarà sempre l’uso della forza (più o meno camuffato dalla propaganda) l’elemento discriminante per affrontare i problemi nazionali che via via si presentano.
Se da una parte è vero che vi è stata una significativa crescita del diritto di cittadinanza in alcuni paesi come il Ghana e il Senegal, le élite dominanti tendono spesso a soffocare qualsiasi forma di dissidenza. Ma attenzione: sarebbe davvero ingiusto scaricare tutte le responsabilità sui governi locali. L’Africa, infatti, continua ad essere la metafora di una versione, riveduta e corretta, del colonialismo. Una concezione per cui la Storia delle sue nazioni sembra essere il riflesso di quella altrui. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta si parlava in termini di “guerra fredda” tra i due blocchi, nel ventennio successivo di una parcellizzazione degli interessi più variegati – soprattutto cinesi e americani – mentre oggi assistiamo al monopolio di nuove aggregazioni come nel caso dei paesi emergenti (Brics) o alla riedizione di modelli coloniali come quello della Françafrique. Sebbene quest’ultima sia stata sconfessata a parole, come dottrina politica, dal presidente François Hollande, continua a resistere nel tempo, con una sorta di maquillage, per affermare il business strategico delle commodity (uranio e petrolio). Ed è proprio questo l’aspetto inquietante che andrebbe stigmatizzato. Si fa presto a dire che i leader africani hanno una spiccata propensione per la corruzione. Questo fenomeno prevede sempre due complici: colui che intasca il denaro (inteso come soggetto richiedente sul mercato dell’illecito) e colui che lo consegna (il cosiddetto offerente). Pertanto occorre andare al di là di una visione manichea per cui vengono sempre assolte quelle nazioni dove risiede il potere economico-finanziario planetario. Se il computo delle ruberie integrasse non solo la “domanda”, ma “anche la dimensione dell’offerta”, la graduatoria dei paesi con un alto indice di corruzione sarebbe assai diversa da quella che viene pubblicata sui giornali e vedrebbe in testa nazioni con alti standard di democrazia. Inoltre, occorre ricordare che non pochi governi africani hanno tentato invano di persuadere la Cpi a perseguire i governi dell’Unione europea per la morte di numerosi migranti africani nel Mediterraneo. In effetti, come recita un proverbio della tradizione nilotica “il mais non può aspettarsi giustizia da una corte composta di polli”.