Arabia Saudita – Iran, lo scontro rischia di dilagare

L'esecuzione, decretata dall'Arabia Saudita, del dignitario sciita Sheikh Nimr al-Nimr, ha riacceso lo scontro settario tra sciiti e sunniti. Una frattura religiosa con risvolti politici e militari che coinvolge tutto il Medio Oriente e i Paesi del Golfo e che mette a rischio gli sforzi diplomatici per trovare una soluzione alla guerra in Siria e Yemen. I musulmani nel mondo sono 1.599.700.000. I sunniti sono circa il 90% del totale.

Con l’esecuzione, sabato 2 gennaio, del dignitario sciita Sheikh Nimr al-Nimr, la lunga storia dello scontro politico e religioso, tra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita, si arricchisce di un nuovo capitolo. Nimr al-Nimr, giustiziato insieme ad altri 46 “terroristi e sediziosi”, era un noto sostenitore della “primavera araba” scoppiata nel 2011 nella regione orientale, a maggioranza sciita, del regno saudita, repressa con la violenza e con centinaia di arresti. I capi di accusa contestati al  dignitario sciita andavano dai “rapporti con gli stranieri”, alla disobbedienza al governo e passando per l’uso di armi contro le forze di sicurezza. Accuse rigettate in toto dai sostenitori di  Nimr al-Nimr che hanno sempre visto in lui la voce contro le discriminazioni e l’ostracismo politico e religioso della maggioranza sunnita saudita nei confronti della minoranza sciita, il 15% di una popolazione di più di 27 milioni di persone. Intanto in queste ore la Guida suprema iraniana invoca “la vendetta divina sui politici sauditi”, mentre Riad interrompe i rapporti con Teheran e invita i diplomatici iraniani ad allontanarsi dal Paese.

Fratelli coltelli.La dottrina wahhabita seguita dai sauditi sunniti, infatti, vede negli sciiti dei veri e propri eretici, degli apostati, rei di considerare, dopo la morte di Maometto, califfo legittimo il genero del profeta, Ali ibn Abi Talib, piuttosto che Abu Bakr, compagno di Maometto e importante studioso islamico. Dure le reazioni all’uccisione di Al Nimr nel mondo sciita: nella capitale iraniana l’ambasciata saudita è stata data alle fiamme. Secca la condanna della Guida suprema iraniana Ali Khamenei: “senza dubbio l’illegittimo spargimento di sangue di questo martire innocente avrà un effetto rapido e la vendetta divina si abbatterà sui politici sauditi”. Da Bahrein e Emirati Arabi Uniti è giunta, invece, l’approvazione per le esecuzioni, giudicate parte della lotta al terrorismo. Una divisione religiosa che non si è mai sanata. Tutt’altro. Con l’ascesa al potere del principe Salman bin Abdulaziz, il 23 gennaio del 2015,  lo scontro confessionale si è trasferito prepotentemente anche sul versante politico, con Riad  e Teheran, a farsi paladini dei rispettivi interessi regionali come testimoniano le reti di alleanze allacciate nell’ambito della guerra siro-irachena e della lotta, in questo caso comune, al sedicente Stato Islamico (Daesh). Da una parte l’Iran, alleato del presidente siriano Bashar al Assad, insieme alle milizie sciite libanesi Hezbollah, in stretto contatto con il presidente russo Vladimir Putin, e dall’altra l’Arabia saudita che guida, con il plauso del grande alleato Usa, una coalizione di 34 Paesi, tutti a maggioranza sunnita, pronta a intervenire in quei territori minacciati da gruppi terroristici come Boko Haram, Shabaab, Al Qaeda, Daesh ma anche da movimenti sciiti come Hezbollah libanesi e Houthi in Yemen.

Sforzi diplomatici a rischio. L’esecuzione di Al Nimr aumenta le distanze, già enormi, tra le due potenze regionali e di fatto rende vani i timidi segnali di apertura che il presidente iraniano, il moderato Hassan Rouhani, forte anche dell’accordo sul nucleare, aveva lanciato all’Arabia Saudita per tentare di ridurre le tensioni settarie che stanno avvelenando tutta la regione. Rouhani adesso dovrà fronteggiare anche l’opposizione interna dei radicali e dei Pasdaran, i miliziani khomeinisti della rivoluzione islamica del 1979, che puntano a usare le tensioni settarie a fini politici e per chiedere una politica estera più aggressiva. Snodo importante, a riguardo, saranno le elezioni del 26 febbraio per il nuovo Parlamento, ora dominato dagli ultraconservatori e che il fronte riformista del presidente Rouhani punterà a riconquistare. Le relazioni tese tra Riad e Teheran avranno, secondo molti analisti, riflessi negativi anche sul processo di pace in Siria. Il 25 gennaio è previsto l’avvio dei colloqui di pace per la Siria sotto l’egida Onu e, sempre in questo mese, il secondo round negoziale tra le fazioni in lotta nello Yemen dove, dal 2 gennaio 2016, non vige più il cessate il fuoco che era entrato in vigore il 15 dicembre scorso. Ad annunciarlo è stata la coalizione militare araba che sostiene il governo yemenita contro i ribelli sciiti.

Inizio anno non promettente. Era dal 1980 che l’Arabia Saudita non giustiziava, in un solo giorno, così tanti condannati a morte, ben 47. Secondo organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Human Right Watch nel 2015 sono state oltre 150 le esecuzioni, cifra che pone l’Arabia ai vertici della classifica dei cosiddetti “Paesi boia”. È paradossale, allora, che nel 2016 toccherà proprio all’Arabia Saudita vigilare e difendere, per conto dell’Onu, i diritti umani nel mondo. Il suo ambasciatore, Faisal bin Hassan Trad, lo scorso settembre è stato eletto a capo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, organismo istituito per far rispettare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Quella stessa Dichiarazione che l’Arabia Saudita non ha mai firmato.