Cartello nel campo di Idomeni: auguri per i cristiani

Alla frontiera greco-macedone, circa undicimila persone vivono in un campo improvvisato nella speranza che il confine possa aprirsi. Sono siriani, iracheni, afghani, marocchini, tunisini, algerini, pakistani, somali. Il racconto di una giornata di tensione e le storie di chi non vuole arrendersi

“Auguri alle persone cristiane. Buona Pasqua”. Il giovane Mohamed stringe tra le mani un cartello nel campo di Idomeni, il piccolo villaggio lungo la frontiera tra Grecia e Macedonia divenuto il simbolo della Rotta Balcanica. Nonostante porti il più tradizionale dei nomi musulmani, Mohamed è cristiano, nato in Siria, al confine con la Turchia, da una famiglia curda. È arrivato a Idomeni da una ventina di giorni insieme ai genitori. Tra queste montagne verdi, trasformate in un immenso campo a cielo aperto, il cartone che stringe tra le mani è l’unico segno visibile che ci ricordi il giorno di Pasqua. Ed è per certi versi normale in un luogo dove la quasi totalità della popolazione è di religione islamica. Sono siriani, iracheni, ma anche afghani, pakistani, marocchini, tunisini, algerini, somali. Undicimila persone accomunate dalla speranza di vedersi aprire davanti agli occhi quello stesso confine che, nel corso del 2015, ha visto passare prima di loro quasi ottocentomila persone.

Apertura del confine. In testa Mohamed porta una bandana e sul volto il sorriso fresco della sua adolescenza. Con il cartello alto sopra la testa si muove tra le persone che si accalcano a due passi dai poliziotti in tenuta antisommossa. Per alcuni secondi riesce persino a guadagnarsi l’attenzione di fotografi, cameramen e giornalisti arrivati a seguire una giornata che si preannunciava tesa perché, dalla sera precedente, si erano rincorsi di tenda in tenda i rumors su una possibile apertura del confine. Voci pericolose che si sono moltiplicate nonostante il tentativo dei volontari di far emergere la verità: nessuno avrebbe aperto la frontiera. Così, fin dalle prime ore della mattina, intere famiglie presenti nel campo e alcune provenienti dagli accampamenti vicini a Idomeni si erano preparate raccogliendo le poche cose che avevano con sé, accalcandosi lungo i binari della ferrovia che collega i due Paesi.

Mancanza di informazioni. Davanti al gruppo i ragazzi più giovani cantano e gridano “open the border” (aprite il confine). Tra loro Jamal, marocchino arrivato in Grecia due mesi fa e rimasto bloccato come tanti connazionali perché considerato migrante economico. È arrivato troppo tardi quando il permesso di passare era ormai consentito solo a siriani, iracheni e afghani, preludio alla chiusura totale; sono tanti come lui a Idomeni, rimandati indietro da Slovenia, Croazia, Serbia e Macedonia, fino a qui e, un domani, forse, in Turchia. Pochi metri più dietro questo gruppo, in posizione più defilata, ci sono intere famiglie, anziani, donne con in braccio bambini piccoli. Alcune sono sole come Rym, quasi quarant’anni e tre figli con lei, che vuole raggiungere il marito che è arrivato in Germania la scorsa estate passando da questa stessa strada. Una possibilità che le sarebbe offerta dal piano di ricongiungimenti previsto dall’Unione europea, ma che la donna dimostra di non conoscere preferendo, come tanti altri, continuare a restare qui nella speranza che il confine possa aprirsi: purtroppo la mancanza di informazioni è uno dei principali problemi nel gestire questa crisi e il lavoro degli attivisti non basta a colmare il vuoto istituzionale che regna in un campo “spontaneo” non gestito da alcuna autorità.

Zaini in spalla e figli in braccio. Lasciamo la calca e ci allontaniamo dalla ferrovia verso la recinzione metallica che corre per chilometri a proteggere il territorio Macedone. Cinque giovani somali riposano sdraiati nell’erba incuranti di quanto sta succedendo a poche centinaia di metri di distanza. Sono arrivati da poche ore portando con sé una domanda: “Quando apriranno?”. Lo stesso interrogativo che sta tenendo da ore incollate al confine intere famiglie con gli zaini in spalla e i figli in braccio. Torniamo verso la ferrovia e il clima sembra essersi fatto più disteso. La linea della cautela ha prevalso: il confine è chiuso, ma almeno nessuno si è fatto male. Incontro Hussein, ragazzo siriano di Aleppo, che tra i primi ci aveva parlato delle voci sull’apertura. “Abbiamo fallito”, sospira con un sorriso che tradisce delusione ma non rassegnazione. In fondo, forse, ci aveva sperato per davvero. Lentamente i poliziotti tolgono le protezioni e alleggeriscono la guardia alla frontiera, nessuno si muoverà almeno per oggi. Tutti gli altri tornano alle loro occupazioni: i volontari alla distribuzione di cibo, vestiario e informazioni, gli abitanti di Idomeni a fare la coda per il pranzo, il té o le latrine. Cerco Mohamed e il suo cartello, ma anche lui è andato via. Solo il confine resta ancora lì immobile, protetto da un piccolo gruppo di poliziotti, a far da sfondo ad un’umanità che, oggi più che mai, sembra non aver più nulla da perdere.