Primo Piano
Chiara Castellani, un passero della Savana con un’ala sola
Medico missionario italiano, da oltre trent'anni, si batte senza sosta per il diritto allo studio e alla salute nel Sud del mondo. Oggi lavora in un ospedale abbandonato, senza acqua ed energia elettrica, nella Repubblica democratica del Congo. Questa "piccola" donna ha rivoluzionato, con tanta fede, la sua vita per non togliere ai poveri la possibilità di sognare un futuro diverso.
Speranza, forza, determinazione e coraggio la aiutano quotidianamente nell’esercitare la sua arte medica per curare migliaia e migliaia di vite umane nei villaggi dell’Africa e nell’ospedale Kimbau con quattrocento ammalati senza acqua, senza energia elettrica, con scarsi medicinali. Chiara, per tutti “Mama Clara”, è l’unico medico per 150.000 persone sparse in più di 5000 chilometri quadrati funestati da una guerra che non finisce mai e dalle peggiori malattie. Un passerotto di donna, minuta e ingrigita, ricurva su se stessa. Eppure è un gigante di donna. Chiara è un medico di frontiera che parla poco, ma ogni parola è come se scolpisse la roccia più dura di quella straordinaria cosa che è il vivere l’altro, sentirlo parte di sé e della propria storia. Una scelta di vita la sua carica di dedizione e di grande umanità.
Chiara Castellani, nata a Parma nel 1956, da oltre trent’anni è un medico missionario in un villaggio della diocesi di Kenge, in Congo, uno dei Paesi più poveri del continente africano. Un Paese dilaniato dalla povertà e affamato dalla guerra. È qui che Chiara ha deciso di vivere e di operare dal 1991 dopo aver iniziato la sua vita missionaria in America Latina a soli 26 anni. Era il 1983 quando con in tasca una specializzazione in ginecologia e ostetricia, lascia l’Italia e decide di metter in discussione se stessa e la propria vita partendo come medico per il Nicaragua. Erano gli anni della rivoluzione, c’era richiesta di medici in America Latina ed era necessario garantire il diritto alla salute e supplire alla carenza di personale, “così decisi di partire” racconta la volontaria. Rimane lì fino al 1989, “fino a quando mi resi conto che il mio lavoro si era concluso perché c’erano bravi medici locali e non ero più necessaria”. Il suo lavoro era prettamente assistenziale, si occupava di cesari e un po’ di chirurgia di guerra. Una forza instancabile quella di Chiara che neanche una mutilazione al braccio destro a causa di un incidente è riuscita a fermare.
Un passero con un’ala sola. È accaduto il 6 dicembre 1992 in Congo durante un incidente di transito “stavamo tornando dalla capitale dello Zaire, Kinshasa, dove avevamo comprato medicine e alimenti e per sfuggire ad un agguato da parte di alcuni militari, che non venendo pagati da mesi si erano dati al banditismo, la macchina su cui viaggiavo ebbe un incidente” racconta. “È stato quel giorno che sono diventata “un passero con un’ala sola”, quando la mia vita di donna e di medico si è spezzata in due”. Dal dicembre 1992 “Doctora Clarita”, come la chiamavano in America Latina dove per sette anni si è battuta per la pace e per la ricostruzione del Paese con dedizione totale e senza arrendersi alle tentazioni di fuga, vive con un solo braccio. Eppure continua la sua opera di medico tra gli emarginati. Senza risparmiare pesanti critiche al sistema economico della Nazione e alle potenze occidentali.
Il cambiamento di rotta. L’incidente è stato un momento molto importante nella vita del medico missionario “mi ha messo dall’altro lato del bisturi ed è una cosa molto importante per un medico capire la sofferenza, ma anche il bisogno di continuare a vivere, superare l’handicap e di continuare a realizzare i propri sogni. Ho imparato a chiedere aiuto agli altri”. Se per tanto tempo era stata lei a dover aiutare gli altri, con l’incidente ha capito come ci si sente stando dall’altra parte. “Ho scoperto la grande meraviglia di avere bisogno di aiuto anche nei gesti quotidiani. Che cos’è un braccio dinnanzi alla meraviglia della vita, di una nuova vita!” Perdendo il braccio ha vissuto sulla sua pelle la stessa esperienza di tanti ragazzi, di tante donne, di tanti uomini, di tanti bambini che per il suo lavoro ha visto arrivare in ospedale vittime di guerriglie o delle mine antiuomo e che ha dovuto amputare. “Non è stato un segno del destino ma un segno di Dio perché da quel momento ho iniziato a rendermi conto che la cosa più importante per me era che l’incidente mi aveva sottratto sì un braccio, ma non la voglia di sognare”.
La scelta. Un sogno coltivato fin da piccola. Ha sette anni quando a scuola un missionario francescano le parlò del suo lavoro e della sua esperienza con i malati in Africa. Il suo racconto la impressionò molto soprattutto quando disse: “voi bambini non avete mai letto il Vangelo, altrimenti verreste tutti in Africa con me“. Invece di rispondergli protestando come tutti i suoi compagni di scuola, Chiara ne rimase molto impressionata perché suo padre aveva l’abitudine di leggere ai figlioli il Vangelo tutte le sere. Quel giorno stesso al ritorno da scuola comunicò al padre che sarebbe diventata un medico missionario, destinazione: Africa. Una convinzione che si è rafforzata con il passare del tempo. Chiara vuole andare in Africa come laica volontaria per stare accanto a chi non ha nessuno. Per incontrare la folla delle Beatitudini evangeliche che aveva imparato ad amare fin da bambina alla scuola domestica dei genitori. Dopo il liceo non ha dubbi, si iscrive a medicina e si laurea in ginecologia al Gemelli di Roma. Ma invece che nell’Africa sognata da bambina, guardando l’atlante finisce in Nicaragua con il Mlal, Movimento laici per l’America Latina. Ha ventisei anni e una passione “off limits” per gli altri.
L’Africa: il suo sogno di bambina. Era molto più facile seguire il sogno e sentirsi cristiana dove veniva garantito il diritto alla salute come in Nicaragua che in Congo dove si è dovuta scontrare con il diritto alla salute negato. Fino al 2008 è stata direttore dell’ospedale di Kimbau, ha diretto per quasi 10 anni la scuola infermieri dapprima scuola della diocesi ora statale. Attualmente dirige l’ufficio diocesano delle opere mediche, che segue e gestisce tutte le opere sanitarie. “No, non ho mai pensato di abbandonare. Era quello che volevo fare da bambina: curare la gente e stare vicino ai malati in Africa”.
La forza della fede. Ha messo su cliniche ed ospedali, ha formato migliaia di infermiere ed infermieri. Chiara di ognuno dei suoi pazienti ricorda il nome, un pezzo di storia. Sono persone per lei, pezzi di famiglia, non numeri e fredde statistiche. Ed insieme alla sua famiglia da anni grida, inascoltata, al mondo le ragioni vere dell’orrore che regna incontrastato in quel grande angolo di mondo, rischiando la vita ogni giorno. “La fede mi ha insegnato che non bisogna mai fermarsi dinnanzi agli ostacoli e ad avere e regalare agli altri la gioia della speranza”. Una piccola donna “in prima linea” capace di sentirsi ricca senza mai avere un soldo in tasca. Ricca di vita e di amore. Nel proprio intimo una grande forza, “Dio è il mio compagno di viaggio” dice. Riconoscente alla vita e agli altri che desiderano viverla liberi e senza paura, capaci di sorridere anche in mezzo alla guerra. “Non ho mai potuto accettare fino in fondo di essere chirurgo di guerra, anche se dovevo esserlo per necessità e per urgenza”. Quando nel 2002 prende i voti come missionaria laica, lo fa pronunciando le parole di San Francesco: “Dio, fa di me uno strumento della tua pace”. “Sono un chirurgo di guerra e voglio essere strumento di pace proprio perché ho visto in tutti questi anni cosa significano guerra e violenza, soprattutto per i civili”. Si definisce chirurgo di pace proprio perché ha vissuto in situazioni di guerra. Lei non si arrende nonostante in Congo non sia accettata dalle autorità civili, ma ha ancora una sfida da battere: non togliere ai poveri la possibilità di sognare un futuro diverso.
Il futuro del continente nero. L’Africa ha bisogno di istruzione. Il primo desiderio degli africani è quello di studiare. “Se chiedi a un congolese cosa desidera, risponderà “aiutami a studiare“. Quando vengo in Italia ho l’impressione che si sia rinunciato a sognare, ad avere speranza e si sia piombato nel più totale catastrofismo. In Congo ci sono catastrofi, ma non c’è catastrofismo, c’è tanta speranza e tanto desiderio di riscattarsi. A volte mi dico che se ci deve essere un segno di salvezza verrà dall’Africa, perché in Africa c’è ancora tanta voglia di sperare” afferma la Castellani. Sono i poveri che la trattengono in Congo. “Chi vive nel Nord opulento non può arrivare a comprendere nemmeno lontanamente la mancanza di tutto di chi vive nel Sud, dove la povertà genera guerra e la guerra genera povertà. Dove ci si ammala di tubercolosi, malaria, meningite, di epidemie come quella di Ebola, la malattia del sonno trasmessa dalla mosca tse tse che distrugge il cervello, di Aids sempre più diffuso con la guerra, dove si viene uccisi dal cianuro della manioca non lasciata macerare nell’acqua a sufficienza perché la fame è devastante e impedisce di aspettare” aggiunge il medico di pace. Fra questi poveri, in prima fila ci sono le donne. Con loro Chiara ha stabilito subito un rapporto privilegiato. Sono il presente e il futuro dell’Africa. Niente riesce a piegarle. Né le guerre, né la violenza, né la fame. Neppure le malattie e la morte. A Kimbau sono state loro a pagare il prezzo più alto dei conflitti con i figli e i mariti morti negli scontri, i villaggi saccheggiati, le figlie stuprate. Ma non si sono mai arrese e appena hanno potuto, in mancanza di tutto, si sono messe a fabbricare con olio di palma e soda caustica il sapone che è introvabile e così indispensabile. Hanno chiamato questa loro impresa Telema che significa “alzati in piedi”. A Kinshasa, durante i giorni tragici delle stragi, mentre coltivavano la papaia sui marciapiedi della città, hanno lanciato un appello al mondo perché si intervenisse a favore del loro Paese. Chiara si è unita a loro in una lettera inviata alle donne dell’Occidente che ha fatto il giro del mondo.