“Chiudere le frontiere è un passo indietro di civiltà”

Il monito di monsignor Guerino Di Tora, vescovo ausiliare di Roma e presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e della Fondazione Migrantes, in vista della 102esima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebra nelle chiese di tutto il mondo domenica 17 gennaio, sul tema "Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della Misericordia".

Almeno 6mila persone, migranti e italiani, saranno domenica 17 gennaio in Piazza San Pietro per  partecipare all’Angelus e varcare la Porta Santa, portando in processione la Croce di Lampedusa, realizzata con le assi di legno dei barconi e benedetta da Papa Francesco il 9 aprile 2014, da allora in viaggio per l’Italia. È questa una delle iniziative clou, il Giubileo dei migranti, in occasione della 102ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che si celebra in tutte le Chiese il 17 gennaio. Durante la messa, che sarà celebrata dal cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti, saranno consacrate le ostie prodotte da tre detenuti del carcere di massima sicurezza di Opera, persone che hanno commesso omicidi ma che hanno seguito un percorso di consapevolezza sugli errori commessi. A livello locale, nelle diocesi, saranno invece organizzate conferenze, eventi, catechesi, celebrazioni. “Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della Misericordia”, è il tema del Messaggio del Papa per la Giornata, quanto mai attuale, come ribadito da monsignor Guerino Di Tora, vescovo ausiliare di Roma e presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e della Fondazione Migrantes. Che a proposito del dibattito europeo sull’accoglienza dei profughi e il rischio della chiusura dello spazio Schengen avverte: “Chiudere le frontiere e alzare muri è come fare un passo indietro di civiltà”.

Nel messaggio il Papa punta il dito contro l’indifferenza che diventa complicità quando si assiste come spettatori alle tragedie dei migranti. C’è un mea culpa da fare, visto che siamo nell’Anno della Misericordia? Tutti dobbiamo interrogarci su questo. L’indifferenza ci porta fuori dalla nostra esperienza cristiana. Siamo chiamati a ricambiare l’amore di Dio che abbiamo ricevuto amando il nostro prossimo. L’indifferenza è un atteggiamento di negatività che già nella Bibbia viene condannato. A cominciare dai vescovi, dai sacerdoti, ognuno di noi ha qualcosa da recriminare a se stesso su questo tema. Purtroppo il contesto della società tende a chiudere piuttosto che ad aprire: si aprono i mercati ma si chiudono le relazioni personali, questa è la contraddizione. C’è la globalizzazione del denaro e delle merci ma non quella delle persone umane.

Papa Francesco non si stanca di parlare del dramma delle migrazioni e di lanciare appelli. Come deve essere vissuta l’accoglienza? Accoglienza significa essere attenti alle esigenze dei migranti, farsi carico delle persone e delle famiglie. Come il Papa ha specificato nella richiesta alle parrocchie e alle famiglie di accogliere i profughi, non significa semplicemente farli entrare in casa ma farsi carico delle loro esigenze, a cominciare dagli aspetti sanitario, giuridico, linguistico. Tutte situazioni che riguardano il vivere sociale, per entrare in un clima di fraternità: passare dall’accoglienza alla conoscenza all’integrazione.

Come le sembra stiano rispondendo all’appello del Papa le parrocchie, le famiglie e i conventi in Italia? Parlando con numerosi vescovi ho potuto constatare che l’accoglienza è stata buona. Sono però necessari tempi lunghi per la preparazione dei locali: serve l’intervento della Migrantes e della Caritas, della Asl per verificare se si è in regola con la possibilità di ospitare. E’ un lavoro più lento. Poi possono sorgere problematiche diverse: distinguere, ad esempio, tra una accoglienza nel servizio Sprar (Servizio per l’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati) o di una prima accoglienza; c’è il rapporto con la prefettura nell’invio dei migranti al soggetto richiedente. Mi pare ci sia un buon senso di accoglienza e che anche dove non si è riusciti a realizzare qualcosa nella propria comunità ci si è uniti in collaborazione con altre parrocchie. E’ soprattutto un lavoro culturale: bisogna mettersi in un contesto di accoglienza e relazionalità con chi arriva. Rendersi conto che non sono numeri da sistemare: ognuno è una persona con una sua storia e realtà, con i drammi di chi ha attraversato il mare, di chi ha visto distrutta la propria casa o uccisi i propri familiari. Dietro ci sono tanti traumi non conosciuti.

Il tema “immigrazione” porta con sé strumentalizzazioni politiche, segni di ostilità. Ci sono resistenze anche nelle comunità cristiane? I vescovi mi dicono che la gente semplice delle parrocchie ha buon senso di accoglienza quindi le resistenze sono più montate che reali. Certo, c’è chi ha una visione completamente diversa del vivere sociale. Ma non dobbiamo mai dimenticare che l’Italia è stata una terra di emigrazione. Ricordo gli anni del dopoguerra, con gli arrivi a Roma dal Meridione d’Italia, sempre in uno stile di grande accoglienza. L’uomo medio italiano sa accogliere, i romani in particolare hanno l’accettazione dell’altro e la tolleranza nel proprio Dna.

Abbiamo tutti davanti agli occhi l’esodo biblico dei profughi sulla rotta balcanica, ma ora alcuni Paesi del nord sembrano voler fare dietro font sull’accoglienza: c’è chi chiude le frontiere e chi chiede l’abolizione di Schengen, soprattutto dopo i fatti di Parigi…Chiudere le frontiere e alzare muri sono fatti negativi, un passo indietro di civiltà. Certo, se ci sono delle problematiche o dei timori legati al terrorismo ci deve essere una maggiore consonanza e attenzione da parte delle forze dell’ordine a livello europeo. Ma di fronte alle difficoltà di chi fugge per sopravvivere non ci sono barriere che tengano. Chi è in una situazione di guerra o in una realtà di fame, di siccità, di miseria, è ovvio che cerchi una vita migliore. Chi ha affrontato il mare sa di rischiare per poter trovare il meglio, lasciando una situazione sicura di morte per sperare in qualcosa di diverso.