Attualità
Combattere il “bullismo”
Fenomeni di violenza o prevaricazione si registrano in tutta Europa, ma si moltiplicano progetti e azioni per creare contromisure e difendere le vittime.
Ritorna a farsi sentire la sordida parola “bullismo” quando i ragazzi rientrano a scuola, come se fosse ogni volta un problema nuovo. Se ne parla in genere solo quando è troppo tardi, se ne sa troppo poco tra insegnanti e genitori, anche se non è un fenomeno recente. “La cosa nuova è che il bullismo oggi non si registra solo nelle scuole (tra studenti, da parte degli studenti verso gli insegnanti o viceversa), ma in tutti i gruppi in cui le persone sono più o meno forzate a vivere insieme”, dice a Sir Europa Matty van der Meulen, ricercatrice in psicologia dello sviluppo presso l’università di Groningen, Paesi Bassi. Luoghi di lavoro, prigioni, case di riposo, club sportivi, di tutto il mondo, non solo d’Europa, sono possibile campo d’azione. La radice di questa malattia sociale? “La lotta per il potere e il dominio nel gruppo, ottenuti attraverso l’aggressione e il bullismo”. Che sia cyber-bullismo o prevaricazione con risvolti sessuali, ridicolizzazione, emarginazione o prevaricazione fisica, una ricerca recente condotta proprio dall’università di Groningen sotto la guida del professor René Veenstre sul fenomeno nelle scuole di primo e secondo grado (“Bullismo come processo di gruppo”) mostra che non si tratta di un problema individuale. È un processo di gruppo: uno prende l’iniziativa, ma poi ci sono quelli che assistono e così “rinforzano” il bullo. Affrontare il bullismo funziona solo se l’intero gruppo si sente responsabile e se si cerca di cambiare il comportamento di tutti i membri del gruppo, con un ruolo importante, a scuola, da parte degli insegnanti. Risorse disponibili. Ogni Paese europeo ha già risorse attive. In Spagna c’è il metodo Monité, che a partire da un videogioco, insieme a guide didattiche e un quaderno di attività per i genitori, insegna ai bambini tra i 6-11 anni il rispetto dell’altro con il linguaggio più consono ai nativi digitali. In Francia il ministero per l’educazione ha lanciato il progetto “contro il bullismo nelle scuole”, piano di prevenzione con relativi strumenti e una piattaforma che mette a disposizione materiali, esperienze condotte nelle singole scuole, numeri d’emergenza e un concorso annuale per i giovani, “Mobilitiamoci contro il bullismo”. “Beat the bully” è in Irlanda un simile luogo virtuale con suggerimenti per identificare le vittime o i bulli e il link a una serie di agenzie d’aiuto disponibili. Ancora, nella contea di Donegal si sta organizzando la seconda mostra anti-bullismo realizzata da bambini per i bambini, mentre l’università di Dublino dal 1996 ha un Centro di ricerca anti-bullismo che mette a disposizione studi, esperienze e seminari formativi per insegnanti ed educatori. In Norvegia è nato nel 1986 il programma “Olweus”, mentre in anni più recenti la Finlandia ha sviluppato KiVa, programma anti-bullismo ora introdotto anche in Paesi come Olanda, Estonia, Galles e Italia. Nei Paesi Bassi le proposte anti-bullismo a disposizione delle scuole sono 61, dice Matty van der Meulen, mentre uno studio condotto in Inghilterra nel 2010 ne recensiva già allora 41. Nel frattempo sono nate reti europee e progetti internazionali, come SonetBull o la Rete europea anti-bullismo che intende “unire gli sforzi” e “accrescere la consapevolezza” sul problema. Metodi che non funzionano. Non esiste “medicina” che con efficacia sicura riduca i drammatici numeri di vittime in circolazione (con tutte le variabili del caso rispetto a età, intensità e modalità di violenza subita, i bambini vittime di questa forma di prevaricazione sono 1 su 10 in Francia, 1 su 4 in Inghilterra, 1 su 3 nei Paesi Bassi, 1 su 7 in Italia). Molti dei programmi elaborati non garantiscono risultati efficaci e duraturi. Per esempio, spiega Matty van der Meulen, un comitato del ministero per l’istruzione ha valutato i 61 programmi anti-bullismo in circolazione, e “solo 13 di essi sono stati considerati promettenti”, ma ancora allo studio è la loro efficacia. Perché il bullismo è difficile da smascherare innanzitutto, poi occorre guarire la vittima dalle sue ferite, il bullo nella sua fragilità relazionale e il gruppo connivente. Tra tutti i metodi, sembra emergere per efficacia quello finlandese KiVa, che si è rivelato utile anche in altri contesti culturali al di là di quello nordico in cui è nato. Perché funziona KiVa? “Innanzitutto perché è un intervento su più livelli: i singoli allievi, la classe e la scuola nel suo complesso”, dichiara Matty van der Meulen. KiVa innanzitutto smaschera e lavora sui diversi personaggi coinvolti anziché concentrarsi solo sull’aiuto e la difesa della vittima: oltre al singolo prevaricatore e alla vittima, c’è infatti “l’assistente” del bullo, chi lo incoraggia anche solo ridendo, chi difende la vittima e chi vede o sa ma non fa nulla (“l’outsider”). Attraverso tutti questi personaggi “il bullismo continua”. KiVa lavora poi nel gruppo per definire altri criteri di popolarità e leadership e così sgretolare gli elementi che sorreggono la popolarità del bullo dominante. Molto intensa è “la formazione agli insegnanti nel riconoscere e mostrare un forte atteggiamento contro il bullismo”, ad esempio insegnando una supervisione molto attenta durante intervalli e pause. Poi c’è il lavoro d’informazione e intervento sui genitori.