Chiesa
Con papa Francesco serbi, croati e bosniaci giocheranno insieme
Vladimir Petkovic ricorda gli anni dolorosi della guerra e la sua attività di volontariato. Poi testimonia che "la gente è stanca delle divisioni politiche, etniche e religiose, vuole tornare a convivere come in passato". Il suo augurio è che alla Messa non ci siano "solo cattolici ma anche credenti di altri fedi, tanti giovani, tutti uniti per ascoltare parole di pace, di dialogo e di convivenza.
Papa Francesco, “mister” bosniaco per un giorno. Recupera tutta la sua grande esperienza di giocatore e allenatore, Vladimir Petkovic, per commentare la visita del Pontefice a Sarajevo, il 6 giugno prossimo. Con le sue otto lingue parlate, oltre al nativo croato e bosniaco, anche l’inglese, il francese, lo spagnolo, il tedesco, il russo e l’italiano e i tre passaporti, croato, bosniaco e svizzero, “Vlado” – che in Italia ha allenato la Lazio (2012-2014), vincendo anche una Coppa Italia e oggi guida la nazionale di calcio elvetica – incarna la tradizione multietnica e interreligiosa di Sarajevo, sua città natale, e di tutta la Bosnia ed Erzegovina. Almeno fino allo scoppio della guerra (1992) che vide il coinvolgimento dei tre principali gruppi nazionali, serbi, croati e bosgnacchi (bosniaci di fede musulmana, ndr) e che si concluse con l’accordo di Dayton (1995) che sancì la divisione del Paese in due zone, la Federazione croato-musulmana (51% del territorio) e la Repubblica serba (il restante 49%). “Questa visita sarà molto importante per Sarajevo e la Bosnia ed Erzegovina intera. Le sue parole, i suoi gesti potranno dare nuovo respiro al dialogo tra le diverse anime, culture e fedi che in questa terra hanno convissuto per secoli e che sono parte della nostra tradizione. Dopo tanti anni di guerra, di divisioni, di frammentazione abbiamo bisogno di ritrovare unità di intenti e di obiettivi per far crescere il Paese. Nei suoi viaggi in Albania e in Israele il Papa ha chiesto pace e dialogo. Il mondo ne ha bisogno per avere un futuro più roseo. E questo vale in modo particolare per la Bosnia”. Sarajevo, città simbolo dell’Europa, è stata dilaniata dalla guerra i cui effetti sono ancora vivi tra la gente. Che ricordi ha di quel periodo? “Nel 1992 quando scoppiò il conflitto ero già in Svizzera. Avevo lasciato Sarajevo, dove sono nato e cresciuto tra famiglia, studi di giurisprudenza e calcio, per giocare nel Coira. All’epoca raccoglievo aiuti umanitari e viveri da spedire ai parenti rimasti nella mia città. In quei lunghi anni della guerra si sentivano solo granate e spari e le uniche notizie arrivavano dai radioamatori. Prima di allora Sarajevo era, per antonomasia, una città che trovava ispirazione nella cultura, nell’arte, nello sport, nel dialogo e nella convivenza tra le diverse religioni. Speriamo possa tornare ad essere così anche in futuro. Quello della guerra fu un tempo di violenza ma anche di solidarietà…”. In che senso? “Le persone cercavano di aiutarsi per quel che potevano e lo facevano in modo naturale, dopo tanti secoli di convivenza, frutto anche di un retaggio educativo di stampo familiare. Nasce da qui il mio successivo impegno alla Caritas di Giubiasco in Svizzera, dove mi occupavo di stranieri, ex tossici, disoccupati e alcolisti”. Papa Francesco verrà a Sarajevo per suscitare “fermenti di bene” e contribuire al “consolidamento della fraternità e della pace, del dialogo interreligioso, dell’amicizia”. Con che spirito la gente accoglierà le sue parole? “Oggi a Sarajevo e in tutto il Paese, la gente è stanca delle divisioni politiche, etniche e religiose, vuole tornare a convivere come in passato. È il tempo, per usare una metafora calcistica, di giocare come un gruppo unito, senza individualismi per favorire il bene comune attraverso la ripresa dell’economia, del lavoro, della vita sociale, culturale e anche sportiva”. Insomma, per restare nella metafora calcistica, il Papa allenerà la Bosnia per un giorno cercando di insegnare ai suoi abitanti a “passarsi la palla” per fare goal e vincere la partita della rinascita? “L’esempio della nazionale bosniaca che ha partecipato in Brasile, lo scorso anno, al suo primo campionato mondiale di calcio lo testimonia. In squadra oggi giocano tanti calciatori di fedi e etnie diverse, appartenenti ai tre popoli costituenti, serbo-bosniaci, bosgnacchi, croato-bosniaci. Prima della guerra questo era impossibile. Oggi scendono in campo insieme, si passano la palla, si aiutano e lottano insieme. Così si arriva al risultato, che per la Bosnia vuole dire crescere e prosperare come Paese”. “Voglio sperare che lì, quel giorno, non ci saranno solo cattolici ma anche credenti di altri fedi, tanti giovani, tutti uniti per ascoltare parole di pace, di dialogo e di convivenza, strumenti necessari per promuovere il bene comune del Paese”. “La violenza nel calcio si può estirpare, come dimostra l’esempio inglese. Oggi in Inghilterra i tifosi assistono alle partite stando seduti a pochi metri dal campo di calcio senza che accada nulla. È necessario adottare misure rigide per impedire ogni tentativo di violenza sportiva, che è un fenomeno che riguarda molti Paesi. La repressione da sola non basta, occorre anche una attività intensa di prevenzione e di formazione dei giovani perché vivano lo sport in maniera diversa. Anche i giocatori in campo devono fare la loro parte evitando atteggiamenti irrispettosi. I giocatori devono essere testimoni di positività, dal campo deve emergere la bellezza e l’amore verso lo sport che si riverbera nei tifosi con un innegabile vantaggio sociale. L’amore del Papa per lo sport ce lo sta a indicare”.