Don Lusek, il cappellano della squadra olimpica italiana alle Olimpiadi: una “presenza discreta” segno della vicinanza della Chiesa

Ha partecipato alle Olimpiadi estive di Pechino 2008, di Londra 2012 e adesso a Rio de Janeiro 2016. Presente anche a quelle invernali di Vancouver 2010 e Sochi 2014. Ha accompagnato la squadra italiana ai Giochi Europei di Baku e a quelli del Mediterraneo di Pescara e Mersin. Nel 2009 ha seguito l’Atletica Italiana ai Campionati del mondo di Berlino. Non è un atleta don Mario Lusek, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport, ma il cappellano al seguito delle squadre azzurre. Nell'imminenza delle Olimpiadi di Rio, il 5 agosto, e a pochi giorni dalla sua partenza per il Brasile (24 luglio), don Mario parla al Sir del suo ruolo di cappellano: "Non un coach dell'anima, ma una presenza discreta che esprime la vicinanza della Chiesa" al mondo dello sport.

Preferisce definirsi una “presenza amica” per tutti, atleti, tecnici e dirigenti, più che un “coach dell’anima”, una presenza “non invasiva” ma discreta e riservata, don Mario Lusek, cappellano sportivo della squadra Olimpica italiana in partenza per Rio. “Il cappellano  è una presenza che esprime la vicinanza della Chiesa e la sua attenzione e rammenta un po’ il prete dell’oratorio e su questa tipologia modella il suo servizio che è si culturale e liturgico, ma anche di presenza, ascolto, condivisione in forme briose e serie a seconda delle situazioni”. Don Lusek si aggregherà al team olimpico azzurro (278 atleti, 145 uomini, 133 donne, di 28 discipline) in partenza per Rio de Janeiro. Il 3 agosto sarà inaugurata Casa Italia alla presenza del premier Matteo Renzi che assisterà alla cerimonia di apertura il 5 agosto. Il 21 agosto la cerimonia di chiusura e il 22 partenza per l’Italia. “Speriamo con un bel po’ di medaglie”, afferma il sacerdote.

Don Lusek, qual è il suo ruolo all’interno della squadra olimpica italiana?

Il cappellano è un membro ufficiale della Delegazione olimpica accreditato dal Coni. Può seguire gli atleti negli stadi, ne condivide la mensa e i pochi e residuali spazi di tempo libero. E’ una presenza discreta, riservata, ma visibile, vicina ma tenendosi sempre un po’ indietro evitando di occupare le prime file e per questo viene percepita nel suo vero ruolo reso credibile e autorevole perché portatore di uno spirito di familiarità, di spiritualità. Non c’è rifiuto o ostilità alla presenza di un prete. Anche se all’interno del Villaggio è previsto un Centro multireligioso, noi italiani preferiamo vivere i momenti liturgici negli spazi assegnati al contingente, con orari flessibili in base agli orari di gare, allenamenti e momenti comuni già programmati.

Come è la sua giornata nel Villaggio olimpico?

Come dicevo vivo gomito a gomito con gli atleti, gli accompagnatori, i tecnici e tutti gli addetti ai lavori in modo integrato. Posso anche accedere agli allenamenti ma io non amo “invasioni di campo” soprattutto in momenti come quelli. Mi considero una presenza amica, ovviamente in nome di una fede e di una appartenenza che non esclude ma si fa prossima. Per questo mi trovo ad assaporare i sospiri che aleggiano, andare quando mi è possibile alle gare, gioire per una vittoria e quindi fare festa, condividere le sconfitte se necessario consolando. Sempre con molta discrezione.

Quanto è difficile consolare un atleta dopo una sconfitta, una medaglia persa al fotofinish soprattutto quando la competizione – come le Olimpiadi – è associata all’aspetto economico garantito dagli sponsor?

Per molti atleti un’olimpiade rappresenta una solo occasione nella vita ed è chiaro che le aspettative e i sogni sono molti. Non mi è mai capitata una situazione di delusione assoluta, ma solo attimi di amarezza: è importante in questi casi aiutare a tenere alta la testa dopo una sconfitta e oltre a riconoscere che capacità personali non vengono azzerate da un episodio non sottovalutare i limiti che fanno parte del vissuto di un atleta. Certo che vincere una medaglia olimpica porta con sé dei benefici economici e per gli atleti di molti sport questo avviene solo ogni quattro anni quando tutti gli occhi del mondo sono puntati su di loro. Questo non è un male, anzi. Il problema nasce quando la ricchezza di valori che lo sport porta con sé viene smarrita con l’emergere dell’eccessiva spettacolarità, l’accendersi del confronto agonistico e l’altro da avversario diventa nemico, e il premere dell’interesse economico mette in ombra la centralità della persona.

C’è un episodio, uno sportivo, che più di ogni altro le è rimasto in mente e che in concreto spiega il suo ruolo dentro la squadra olimpica?

Certamente, diversi e belli. Ma proprio per questo richiamo alla discrezione vorrei evitare di indicare nomi e fatti e posso assicurare che sono esperienze che dimostrano che la fede, la religione non sono estranee allo sport e che la disponibilità del prete favoriscono l’intreccio di rapporti e contatti che pur momentanei, legati al tempo olimpico, diventano significativi e permanenti.

Nella sua lunga esperienza di cappellano, negli atleti vede più fede o più superstizione?

Gli atteggiamenti scaramantici non mancano e vanno collocati in un contesto più ludico che esperienziale e vanno osservati con il sorriso: ci sono anche esperienze che raccontano la fede dei singoli, come atleti che pregano, che portano la Bibbia o il Vangelo con sé, che accedono alla Confessione, che confidano i loro dubbi in maniera serena.

Nel panorama olimpico ci sono esperienze come quella italiana circa il servizio religioso alle squadre?

L’esperienza italiana è stata imitata nel tempo da altre nazioni e non solo di tradizione cattolica, anche se con modalità diverse tanto che Papa Francesco nell’udienza per i 100 anni del Coni ha elogiato l’Italia per questa scelta.

A Rio mancheranno, tra gli altri, i cestisti e il marciatore Alex Schwazer, fermato di nuovo per doping. Cosa dire agli atleti che non hanno staccato il pass olimpico?

Il caso di Alex è serio. La sua marcia si era interrotta bruscamente a Londra nel 2012. Io ero lì. Ha ammesso la sua colpa. Ha pagato il debito. Si è umiliato. Si è rialzato ed ha ricominciato a camminare con slancio, passione, coraggio e voglia di riscatto. Questo nuovo cammino si è fermato o è stato fermato di nuovo: è una sconfitta per tutti se non si diradano le ombre. Altri non ce l’hanno fatta a qualificarsi e quindi è un’occasione persa. Ogni atleta sa che non può fermarsi mai dinanzi ad un ostacolo: anzi che bisogna ripartire da esso per tornare a guardare lontano e sognare ancora. Come nella vita.