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Effetto Kursk? Via Kuleba, Bruxelles progetta il riarmo mentre l’Ucraina affonda
Dopo l’effetto Kursk, in Europa si consumano le divisioni tra chi spinge e chi frena sull’uso offensivo delle armi e l’invio scoperto di addestratori sul suolo ucraino.
Kiev ha la nuova squadra di governo. Il rimpasto, descritto come bisogno di “energie nuove”, in realtà non consta di nuovi ingressi, limitandosi a trasferimenti da un dicastero all’altro. Non così però per Kuleba, rimasto fuori dall’esecutivo. É bastato il primo slogan su “armi e vittoria” del successore Sybiha per smentire le voci su licenziamento distensivo in vista delle trattative con Mosca. Inverosimile anche il rinvio allo scontro tra Kuleba e l’omologo di Varsavia sulla riesumazione dei 100mila polacchi massacrati a Volinia nel 1944 dai collaborazionisti di Bandera, dal 2010 celebrato eroe nazionale. Resistono due letture: da un lato, la rimozione di una figura papabile per la sostituzione di Zelensky, visto il nuovo calo di consensi dopo dalla soppressione della libertà di culto; dall’altro, le dimissioni (diluite nel rimpastone ) di un falco sovraesposto ma previdente nell’abbandonare la nave.
La prima interpretazione si riporta al precedente licenziamento del popolare generale Zaluzhny, che in una serie di interviste (coronate dalla morte del braccio destro) aveva altresì addebitato al governo le inutili stragi della controffensiva. La seconda trova sponda nelle smentite al “Piano di vittoria” che Zelensky preannuncia ai referenti occidentali, condito dall’annuncio del supermissile ucraino. L’indizio principale sta negli sviluppi di Kursk. Le forze russe non sembrano avere fretta di liberare l’oblast, per capovolgere la situazione in un guadagno tattico: senza allestire una linea di fronte, costringendo al movimento sotto tiro le già dimezzate unità ucraine, per consumare le migliori unità spostate dal Donbass. Chiamare la ritirata per Kiev ora è fuori discussione, con l’obiettivo di rimanere nell’oblast per avere una carta da giocare nel caso in cui vincesse Trump. La prospettiva non è biasimata dall’attuale supporto atlantista. Se non altro, le immagini degli incursori che comunicano in inglese suggeriscono il contributo all’operazione. Del resto l’inusitata sequenza di raid su tutta l’Ucraina a fine agosto ha mietuto vittime in divisa anche occidentali, acquartierate nelle scuole dotate dei bunker di epoca sovietica..
Il viaggio di Putin in Mongolia ha confermato l’assenza di concitazione al Cremlino, che continua a guardare a oriente (leggasi raddoppio del gasdotto Power of Siberia). Impossibile ridurre la visita a una sfida al mandato di arresto della Corte penale internazionale, come invece denuncia Kiev, che pure ne ha ratificato la giurisdizione il mese scorso esonerando per sette anni la perseguibilità dei suoi cittadini per crimini di guerra.
Dopo l’effetto Kursk, in Europa si consumano le divisioni tra chi spinge e chi frena sull’uso offensivo delle armi e l’invio scoperto di addestratori sul suolo ucraino. A dare man forte al primo settore si erge Borrell, che rilancia con l’idea di istituire a Kiev un ufficio Ue di coordinamento militare, e von der Leyen, che caldeggia un commissario ad hoc, parallelamente al riarmo collettivo mediante fondi comuni, nondimeno funzionale al volano della ripresa. A meno che non si tratti di commesse presso l’industria extraeuropea, resta da chiarire su quali presupposti materiali dovrebbe allestirsi la produzione del nuovo keynesismo di guerra, quando persino la Volkswagen parla di delocalizzazione. Il chiarimento tecnico del nuovo corso spetta al rapporto sulla competitività elaborato con puntualità oracolare da Draghi. Il quale, preconizzando nel 2022 il crollo dell’economia russa, non poté prevederne l’attuale crescita di pil e salari.
La proposta di una simil-Nato europea pare a metà strada tra una Ced riesumata, bocciata nel 1954 dalla Francia e osteggiata dagli Usa, e un piano b di marca neocon a rimedio del neoisolazionismo trumpiano. Ma resta irrealistica, osservando l’eterogeneità tra gli interessi geostrategici degli Stati europei (oltre al NordStream, basti ricordare l’attacco alla Libia) e l’indisponibilità a cedere gli ultimi scampoli di sovranità. Tanto più che ora che le urne a portano alla ribalta partiti accomunati dall’avversione alle agende belligere e alle ricette neoliberali scritte nel dna di Commissione e Bce, in cui il complesso militare-industriale troverebbe sicuro sostegno, mediante i già rodati tagli alla spesa sociale.
In effetti, nel chiedere armi, già Kuleba suggerì a Bruxelles la riconversione all’economia di guerra per sostenere lo sforzo. Ma quand’anche il governo del post-Kuleba ricevesse ciò che legittimamente reclama, memore delle promesse di vittoria che nel marzo 2022 convinsero a cestinare la bozza di Ankara, il futuro dell’Ucraina sembra segnato: distrutta, con un tessuto socioeconomico devastato, priva di forza-lavoro, eterodipendente sotto ogni riguardo.
Alla vigilia dell’estate 2022 ci fu chi poneva l’alternativa tra pace e condizionatore. Oggi il premier britannico prefigura il ritiro dei sussidi alle fasce deboli per il riscaldamento invernale. A quanto pare, l’urgenza di una vera soluzione continua a non fare né caldo né freddo, a fronte di un dramma che dal 2014 in poi ha incrociato diverse occasioni per essere scongiurato.