Fate i tuoni. Nel romanzo una storia di attese, speranza e incontri

Il nuovo libro di Michele D’Ignazio, edito dalla Rizzoli, uscirà il prossimo 20 febbraio. Noi lo abbiamo intervistato.

Michele D’Ignazio, scrittore cosentino, classe 1984, è pronto a offrire a un pubblico sempre più ampio di lettori affezionatissimi il suo nuovo romanzo “Fate i tuoni. Scatenate tempesta, seminate poesia”.

“Fate i tuoni”, a dispetto del più sentito ‘fate i buoni’, è un incoraggiamento a farsi sentire, a mettersi in gioco in prima persona, a non aspettare, restando solo semplici spettatori. Bisogna fare i tuoni, diventare pioggia gentile per allontanare l’indifferenza e seminare poesia… a volte è necessario essere tempesta– sottolinea D’Ignazio – per combattere l’aridità che, al contrario, è silenziosa, lenta e subdola”. Un invito alla vitalità e creatività in una delle forme più belle: la solidarietà.

D’Ignazio è autore della serie long-seller “Storia di una matita”, della trilogia di Babbo Natale, tradotto in 12 lingue, del romanzo avventuroso “Pacunaimba” e, da ultimo, di quello autobiografico “Il mio segno particolare” da cui è nato uno splendido spettacolo teatrale portato in scenda da Marco Zordan con la regia di Maria Antonia Fama, e un podcast radiofonico frutto dell’amicizia con i musicisti, Marco degli Esposti e Massimiliano Cranchi.

Lo abbiamo incontrato per avere in anticipo qualche goccia del suo nono lavoro.

Michele, da dove nasce “Fate i tuoni”?

È una storia che si ispira a un fatto realmente accaduto a Badolato, il 26 dicembre 1997: il primo grande sbarco di migranti in Calabria, su un’imbarcazione dal nome ARARAT che trasportava più di 800 curdi. Sono stato a Badolato più volte, invitato nelle scuole per presentare i miei libri. Gli abitanti generosi mi hanno raccontato la storia dell’Ararat. Al momento dello sbarco ci fu una grande accoglienza. Capitava in un momento storico in cui il paese si stava svuotando, era quasi disabitato e al Sindaco di allora e agli abitanti venne l’idea di ospitare i migranti nelle vecchie case, che vennero ristrutturate in tempi record.

Nel 2020 il Presidente dell’Associazione “La Radice” mi regalò un pezzetto di legno, non dell’Ararat ma di una barca approdata successivamente sulle coste calabresi. Questo dono mi ha molto commosso. Sembra fatto da un artista. Quando lo mostro ai più piccoli mi dicono “È un dipinto in miniatura!”. Sembra infatti di intravvedere l’Africa o il Sud America. In realtà è il mare che ha modellato il legno al punto da far pensare a una cartina geografica. Avere questo pezzo di legno tra le mani mi fa emozionare e immaginare. È una sorta di amuleto: provo sentimenti forti come se fossi stato su quella barca e avessi vissuto quello sbarco. Questo pezzo di legno mi ha tenuto ancorato alla storia. Lo custodivo a casa e, all’inizio, lo tenevo incorniciato. Continuava però a richiamare la mia attenzione e sembrava mi dicesse: “Non dimenticare questa storia, continua a scriverla”.  Eccola.

Parlaci dei protagonisti…

Il vero protagonista è il paese, emblema di un popolo che testimonia la grande solidarietà di chi aspetta, di chi accoglie, di chi non si arrende, di chi si prende cura.  Ci sono tante narrazioni di migranti. Ma forse mancava il racconto di un popolo accogliente. Molti leggendo il romanzo penseranno sicuramente a Mimmo Lucano. Di fatti, Lucano per Riace prese ispirazione da Badolato, dove lui stesso aveva prestato servizio come volontario.

Ci sono poi Zaira e Scilla, due cugine, e NiK che rimanda a NiK Spatari: personaggi che non si arrendono di fronte a ciò che sembra privo di vita, ma riempiono spazi bui e vuoti di bellezza e poesia. C’è Murad che giunge dalla Siria. Scappa dalla guerra ma anche dal destino di un popolo senza diritti e strapazzato da interessi contraddittori: difeso quando torna utile e sfruttato all’occorrenza.

Tre parole per entrare nel testo?

Ce le offre Zaria, una ragazza che ama leggere e giocare con le parole-conchiglia: ogni parola ne nasconde un’altra, a volte di significato opposto. Così “abbandono” contiene “dono”: un paese abbandonato può essere donato; “volontario” nasconde la parola “volo”: un elogio alla solidarietà; “emigrato” ha in sé “grato”: i migranti ci insegnano il valore grande della gratitudine. Ne ho conosciuti alcuni e ammiro il loro saper dire grazie alla terra, alla vita, nonostante le difficoltà del viaggio e al pizzico di razzismo che ancora esiste. Il loro sorriso generoso trasmette serenità.

Tuoni, tempesta, mare…. che ruolo ha la natura nella narrazione?

La Natura è una presenza fondamentale. Leggo in essa una forma di saggezza. Quando non trovo le risposte guardo gli alberi, le tempeste – che mi piacciono tantissimo – e scorgo profonde verità.

La storia di Badolato insegna che l’integrazione fra culture diverse non solo è possibile ma arricchisce i popoli.

Sì. Mi viene in mente un bel libro di Carmine Abate “Vivere per addizione”: una cultura non esclude l’altra. Chi giunge da lontano aggiunge vitalità e trasmette energia a chi spesso è stanco e ha bisogno di uno slancio in più. Badolato ci offre un grande esempio d’integrazione. Ricordo anche un reportage del giornalista Maurizio Crosetti su Badolato, per “La Repubblica”. Mi colpì la conclusione del suo racconto. Parlando dell’Ararat, la barca che trasportò i migranti, che diede poi il nome a un ristorante curdo nato nel paese, scrisse “Qui finisce la Calabria e inizia qualcos’altro”. Una frase che mi emoziona molto”. Fa immaginare quel di più e oltre che inizia nelle nostre terre quando esse ne abbracciano altre.