Attualità
Foto di morte, il tabù è saltato
L’immagine del piccolo Aylan “spiaggiato” ha mutato la percezione pubblica.
Abbiamo ancora negli occhi e nel cuore la terribile immagine di Aylan, il bimbo naufragato sulle coste turche e trovato senza vita, riverso sulla spiaggia, come se dormisse. Quella foto generò un tumulto di solidarietà e di indignazione, con speciali, editoriali, approfondimenti. In un attimo Aylan era diventato figlio di tutti. Era il 3 settembre, due mesi fa. Poi, passato il primo momento di emozione ed emotività, l’attenzione dei media si è spostata altrove.
“Dopo la morte del piccolo Aylan abbiamo sperato che l’Europa si destasse dal colpevole torpore e impedisse subito altre morti. Ogni migrante morto è una ferita profondissima per la nostra civiltà. Muri, barriere respingimenti non sono mai soluzioni. Si tratta di politiche gravemente inadeguate che continueranno a sortire, come unico effetto, altre morti” ha commentato amaramente il 2 novembre padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli (sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati-JRS), alla notizia dell’ennesimo naufragio, quando al largo di Kalymnos sono stati rinvenuti i corpi senza vita di 19 migranti, tra cui sei donne, otto bambini e due neonati.
Così, nell’indifferenza diffusa, perché le tragedie sono silenziate o forse, peggio, metabolizzate, i bambini continuano a morire in mare. Lo scorso fine settimana, la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati Melissa Fleming ha segnalato sul suo account Twitter che “dopo Aylan sono morti altri 70 bambini”. Facendo un rapido calcolo, sarebbe stato possibile dedicare ogni giorno la prima pagina di giornali e telegiornali a una nuova e straziante fotografia, ogni giorno un bambino diverso. E il conto, per quanto approssimativo, continua a crescere. Il quotidiano “Liberation”, nel riportare la notizia, tiene aggiornato un doloroso contatore in cui, dopo i primi due nomi Aylan e Ghaleb, gli altri sono una sequenza di X. Cento piccoli cadaveri ignoti restituiti dalle onde del mar Egeo. Una quotidiana strage degli innocenti, che nulla toglie nella pietà verso i morti adulti, ma che è destinata a colpirci ancora di più, perché tutti in cuor nostro esultiamo quando la telecamera riprende una scena di salvataggio riuscito e sono braccia infantili quelle che si tendono verso la salvezza.
E allora, ci si chiede, per smuovere l’opinione pubblica, l’Europa, dal torpore servirebbe un’istantanea della disumanità al giorno? Se si volessero davvero pubblicare le foto il materiale non mancherebbe, perché, spiega Didier Péron dalle pagine di “Liberation”, dai dispacci d’agenzia emergono con cadenza frenetica delle immagini terrificanti: “Come se i fotografi, spesso allibiti di essere contemporanei dell’eterna tragedia delle frontiere fatali e dei porti irraggiungibili, non volessero più trattenersi dal puntare l’obiettivo sui corpi inermi di bambini e adolescenti. La raccapricciante celebrità postuma toccata ad Aylan ha fatto saltare un tabù”.
Il giornalista si pone una serie di domande che interrogano anzitutto la sua etica professionale, ma che riguardano anche noi lettori: a chi appartengono le immagini dei morti? Abbiamo il diritto di mostrarle? La sua conclusione è che sono questioni destinate a restare senza risposta, perché è la forza degli eventi “che rompe divieti e reticenze e ci costringe a confrontarci con questi sguardi che non incroceremo mai più”. Fotografie che raccontano una storia, la storia di una vita perduta. Ma il timore è che dopo la prima settimana anche questa diventerebbe solo una foto come un’altra, perché anche all’orrore ci si fa l’abitudine e poi ne serve sempre di più per rompere l’abulia. Non è passato molto tempo da quando la portavoce di un’associazione telefonò a una redazione per annunciare in anteprima un naufragio di migranti che avevano appena soccorso: “Quanti morti?” “Un uomo che non ce l’ha fatta” “Allora è troppo poco, richiami quando il bilancio è più consistente”.
Il limite non è mai abbastanza.