Giovani e fede. Castegnaro (Osret), “è nella terra di mezzo che si muovono i nuovi cercatori spirituali”

C’è più bisogno di senso che di verità. La fede, se c’è, prima di dare credito a Dio deve dare senso alla vita. E l’unica testimonianza che può fare presa è l’eccedente umanità di Gesù. Sembrano questi i tratti caratterizzanti il rapporto tra giovani e fede. La sfida per la Chiesa è cogliere questa “nuova terra di mezzo” e mettersi in suo ascolto perché è qui che si muovono i “nuovi cercatori spirituali”.

Alla domanda su che cosa significhi crescere spiritualmente, più della metà degli anziani indica oggi atteggiamenti di tipo morale: distinguere il bene dal male, seguire gli insegnamenti di Dio. Alla stessa domanda i giovani replicano con la ricerca del sé profondo e del vero senso della vita. Parola del sociologo Alessandro Castegnaro, presidente dell’Osservatorio socio-religioso Triveneto (Osret). Di giovani e ricerca spirituale si è parlato il 5 dicembre a Padova in un incontro promosso dalla Facoltà teologica del Triveneto, al quale hanno partecipato Castegnaro e il teologo Duilio Albarello, della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, che avverte: la Chiesa deve porre al centro della sua testimonianza “l’umanità eccedente di Gesù”. Il primo passo è  “mettersi in ascolto delle esperienze concrete dei giovani, con le loro attese e le loro disillusioni, con le loro risposte e i loro dubbi. Solo passando attraverso questo esercizio umile dell’ascolto”, sarà possibile “incontrare i giovani in carne ed ossa”.

Richiamando i dati di una recente indagine, Castegnaro premette che più dell’80% della popolazione del Nordest ritiene che la facoltà di decidere cosa sia il bene o il male appartenga alla coscienza. Solo un terzo è disponibile ad attribuire questa prerogativa anche a Papa e vescovi, mentre tre quarti dei giovani sono convinti che un tempo fosse più facile credere. La maggioranza di loro, spiega, “non comprende la pretesa delle istituzioni religiose di possedere la verità”, e “la loro domanda sul credere riguarda più il senso che il contenuto del credere”. In altri termini, la “verità” è secondaria rispetto al “senso” perché i giovani chiedono di capire “quali conseguenze potrebbe determinare il credere nella loro vita”. La domanda è:

a che serve la religione?

Rispetto al passato, categorie come ateismo e indifferenza “hanno perso molto della loro capacità interpretativa”. Per i giovani l’ateismo indica qualcosa di molto meno strutturato di un tempo, mentre l’indifferenza è più apparente che reale. Lo specifico di una generazione che sta vivendo a tutti i livelli una sorta di “moratoria psicosociale” e che “ha altri nodi da sciogliere” è piuttosto, secondo Castegnaro, una religione

in stand by

con un “imprinting cattolico” di base che permette di non rompere del tutto. La religione di origine rimane sullo sfondo del lungo e non lineare processo di definizione di sé e le sue domande vengono così rinviate ad età successive della vita, “quando nuove impellenze evolutive – la nascita del primo figlio, la morte di un genitore, soprattutto – le riproporranno”. Non si rimuove la questione; la si pone in standby, “sotto vuoto, riattivabile in ogni momento”. E se il fenomeno è coerente con la fase di moratoria in cui vivono i giovani, il sociologo invita a non sottovalutare il fatto che prende piede anche perché essi “non ricevono stimoli interessanti con cui interagire e perché le vie tradizionali da utilizzare nel percorso di chiarificazione non appaiono loro credibili”.

I giovani non negano di credere, ma molti di loro dichiarano di non avere certezze. Non sono sicuri di poter credere, ma nemmeno di non poter credere.

Credono in un Dio “che forse c’è”, che “spero ci sia”; possono avere fede in un Dio, “che può esserci o no”; pregano un Dio che “forse mi ascolta”, che “spero mi ascolti”, le risposte più frequenti. Uno “stare sulla soglia”, incerti sulla direzione da prendere. Eloquente l’autodefinizione di uno di loro:

“Io sono non credente, ma una cosa l’ho capita, a Dio bisogna lasciare la porta socchiusa”.

Ciò che emerge, chiosa Castegnaro, è

una nuova terra di mezzo tra le due rive del credere e del non credere

e non si tratta, precisa, di credenti “tiepidi” (non sarebbe una novità) ma di un dinamismo di “ambivalenze e compresenze, alternanze e oscillazioni”. Una realtà che “non trova oggi ancora rappresentazioni adeguate, né negli ambienti ecclesiastici, né in quelli mediatici, né negli studi, che l’hanno sottovalutata”; che viene rappresentata “in termini deboli e puramente quantitativi” e non viene colta “nelle sue novità, diversità, dinamismi” anche perché, ammette il sociologo, “non si sa come trattarla”. Di qui l’invito a ragionare, anziché in termini di “mondi contrapposti”, in termini di “gradi di appartenenza alle due sfere del credere e del non credere” perché la nuova terra di mezzo è espressione di “indeterminatezza, indecidibilità, desiderio di credere”. Una sorta di “possibilismo”, esitante, sì, ma al tempo stesso proiettato a tenere aperta la porta all’esplorazione del religioso.“Qui più che altrove – conclude Castegnaro – si intravedono i nuovi bisogni spirituali e le domande senza risposta. Nella terra di mezzo si muovono i nuovi cercatori spirituali” di quel divino “ancora atteso e sperato”.