Cultura
Il battello Ercole inabissato forse al largo delle coste calabresi tra Amantea e Fiumefreddo
Lo strano caso di Ippolito Nievo, il poeta soldato che morì nell’affondamento della nave a vapore
L’affondamento del piroscafo “Ercole” è una tragica vicenda rimasta nell’oblio per troppo tempo. Le ricerche archeologiche stanno cercando di chiarire le cause della sua scomparsa, ma continuano a persistere tanti dubbi e perplessità su ciò che accadde veramente. Salpato dal porto di Palermo in direzione di Napoli, esattamente 13 giorni prima della proclamazione del Regno d’Italia, il battello venne risucchiato dalle acque nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1861. Si pensò subito che la nave Ercole fosse naufragata nei pressi della baia di Napoli, tra Sorrento e Capri, ma le posizioni degli esperti sono discordanti.
Maurizio Raia, giovane storico e appassionato di meccanica, membro dell’associazione culturale “Lo Scaffale”, è recentemente ritornato su questo fatto, sostenendo che il relitto della battello in legno, localizzato tra i 17 e i 19 metri di profondità, nel tratto costiero tra Amantea e Fiumefreddo Bruzio, appartiene al piroscafo “Ercole”. Secondo lui il luogo preciso dell’inabissamento sarebbe il Basso Tirreno Cosentino. Raia ha iniziato questo meraviglioso viaggio di scoperta quasi quattro anni fa quando, durante un’immersione di fronte alla foce del torrente Catocastro di Amantea, intravide una caldaia a vapore e un gigantesco scheletro di telaio a pochi metri dalla riva. Si ricordò allora di un articolo letto su una testata nazionale, nel quale venne ipotizzato che la nave “Ercole” fosse colata a picco al largo delle coste calabresi. L’esploratore calcolò la distanza in miglia tra Palermo e Amantea e si accorse, con stupore, che corrispondeva proprio alla distanza registrata sul diario di bordo da Paynter, capitano inglese dell’imbarcazione da guerra “Exmonth”, partita anch’essa da Messina alla volta di Napoli. Il comandante riferì di aver avvistato a 140 miglia dalla città siciliana il relitto dell’Ercole, proprio sulle coste della Calabria, il 4 marzo 1861. La sua testimonianza e il rinvenimento della caldaia, certamente un pezzo di una nave a vapore dell’ottocento, costituiscono due elementi fondamentali che avvalorano la tesi di Raia. In più, quanto riferito per iscritto da Paynter è da ritenere abbastanza affidabile, in quanto l’Ercole fu costruita dagli inglesi e gli stessi inglesi ne annotarono tutti gli spostamenti. Raia contattò tempestivamente la Soprintendenza ai beni culturali di Cosenza e la Delegazione di spiaggia di Amantea, che inviò la segnalazione alla Guardia costiera di Vibo Marina, l’autorità responsabile del territorio. “Si vede un po’ la prua che emerge dalla sabbia e si intravede la parte centrale dello scavo” ha aggiunto lo storico più che convinto della sua posizione, dopo 160 anni di vane ricerche. L’Ercole era un’imbarcazione di circa 45 tonnellate di stazza, stipata al limite con 232 tonnellate di merce, appartenente alla compagnia Calabro-Sicula, forse in cattive condizioni, comandata dal capitano Michele Mancino, e con una capienza di circa ottanta persone, tra equipaggio e passeggeri.
Vi salirono a bordo personaggi storici come Ippolito Nievo, scrittore prolifico del Risorgimento italiano, autore del romanzo “Le confessioni d’un italiano”. Nel 1860 partecipò alla Spedizione dei Mille guidata da Garibaldi, si distinse nella battaglia di Calatafimi e raggiunse a Palermo il grado di colonnello e quello di “intendente di prima classe” della spedizione, con incarichi amministrativi. Una volta conquistato il Regno delle Due Sicilie, a Nievo venne dato l’incarico di riportare dalla grande isola del sud Italia a Napoli dei documenti (ricevute, fatture, lettere), comprovanti le spese sostenute dalle camicie rosse, intorno alle quali aleggiava il sospetto di una presunta gestione scellerata della contabilità di guerra. Si imbarcò sulla nave “Ercole” con altri avventurosi soldati tra cui Pietro Nullo, e perì insieme agli altri nell’immane catastrofe. Dopo anni di insabbiamento, un’inchiesta ministeriale stabilì che la sciagura era stata causata da un incendio dei motori del piroscafo o per una tragica fatalità. Circa un secolo dopo Stanislao Nievo, discendente di Ippolito, fece apposite ricerche, confluite poi nel romanzo storico “Il prato in fondo al mare” (Mondadori, 1974), nel quale lancia l’idea di un possibile complotto dietro il naufragio provocato da un’esplosione. Cesaremaria Glori ricostruisce poi, in maniera accurata, l’avvenimento storico nel volume “La tragica morte di Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo Ercole” (Solfanelli, 2010). Qui viene avanzata l’ipotesi che il disastro possa essere ricondotto ad un attentato, ordito allo scopo di nascondere la notizia dei finanziamenti internazionali, provenienti in particolare dal Regno Unito, a favore della spedizione dei Mille e contro la politica borbonica. Questa congettura, tesa ad addossare la colpa della strage alla destra e al potere piemontese, screditando la sinistra garibaldina, viene ripresa anche nel libro “Il cimitero di Praga” (Bompiani, 2010). In questo romanzo storico Umberto Eco spiega che all’origine dell’ostilità anglosassone per i Borboni c’era – pare – un vecchio contenzioso sullo sfruttamento dello zolfo siciliano, indispensabile per produrre polvere da sparo. Francesco II era ritenuto inaffidabile perché voleva mettere in discussione il monopolio inglese nell’estrazione del minerale. Nel romanzo di Eco Nievo viene ucciso da una bomba fatta confezionare dal falsario Simone Simonini, che fa affondare il piroscafo. Altri autori hanno sostenuto la tesi che l’eliminazione di Nievo sia stata concepita a Torino oppure che sia stata concordata negli ambienti garibaldini, per screditare la spedizione dei Mille.